C’è una punta di benevolo umorismo nelle parole che l’Altissimo rivolge al suo servo Abram, il quale sta imparando a conoscere Dio in modo assai diverso dalle sue abitudini e immaginazioni idolatriche. Sul monte della Trasfigurazione, ove sembra ci sia il trionfo della vista come organo della percezione più sicura e certa, in realtà è l’ascolto a essere richiesto. Proprio mentre lo sguardo sembra raggiungere il vertice delle sue possibilità, l’invito alla conversione risuona come una sorta di deviazione: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo» (Lc 9,35).

L'intento del Signore Gesù, mentre sale verso la montagna, è assolutamente chiaro e viene sottolineato dall'evangelista Luca: «salì sul monte a pregare» (LC 9,28). Il Maestro si apparta sul monte non per dare spettacolo, ma per entrare in intimità con quel Dio che egli chiama sempre con il dolcissimo nome di Padre come farà dall’inizio della sua coscienza di uomo e di credente (Lc 2,49) fino all’estremo dono della sua vita (Lc 23,46).

Il mistero, e non tanto il miracolo della trasfigurazione, termine accuratamente evitato da Luca, è il segno esterno di questo intimo colloquio interiore tra il Figlio che invoca quel Padre che lo riconosce e lo rivela come «Figlio mio» (9,35). Il fatto che il «suo volto cambio d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante» (9,29) non è altro che la manifestazione della gioia inenarrabile che il Signore Gesù vive nell’intimità della preghiera come luogo di assoluto ascolto dell’Altro.

Per Luca non si tratta di «trasfigurazione», egli non usa questo termine, ma semplicemente si tratta di «alterizzazione» in quanto si tratta di un «diventare altro» della sua faccia. Dal punto di vista delle attese e delle immaginazioni dei discepoli, il Signore Gesù diventa irriconoscibile. Il momento della trasfigurazione in realtà segna il tempo offerto ai discepoli per reimpostare il loro sguardo di Gesù. Si tratta di rinunciare alle loro proiezioni per entrare nella chiara luce di ciò che il Signore, con le sue parole e i suoi gesti, rivela di se stesso, del Padre e della nostra stessa vocazione di discepoli. Ciò che è offerto sul monte è un tempo propizio, ma assai delicato e quasi rischioso.

Tutto ciò avviene evidentemente di notte poiché i suoi discepoli «erano oppressi dal sonno» (Lc 9,32) e tuttavia vegliarono e restarono svegli e, a fatica, videro la sua gloria.

Quando Mosè ed Elia partono, dopo aver parlato con Gesù del suo prossimo «esodo», ecco che Pietro parla. La sua parola è mozzata da una seconda notte, una nube e, come già per Abram, «ebbero paura» (LC 9,34).

Pietro, come Abram, come ciascuno di noi, non capisce, anzi fraintende, tentato com’è dal lato estetico di ciò che avviene fino a dire senza sapere che cosa dice: «È bello» (Lc 9,33). Pietro si fa ammaliare da una sorta di bel/ben-essere che è proprio il contrario di ciò di cui Gesù va discorrendo. Per i discepoli di ogni tempo e di ogni luogo la sfida rimane la stessa: passare dall’estetica all’estatica che fa compiere l’esodo sempre doloroso attraverso il bello verso il buono e il vero! Di questo il Signore Gesù andava discorrendo con Mosè ed Elia, ed è di questo che vuole parlare con ciascuno di noi. Sembra del tutto naturale che l’argomento di questa fittissima e luminosissima conversazione sia il «suo esodo» (9,31).

Anche se è del tutto comprensibile che Pietro, invece di mettersi più decisamente in cammino, si lascia prendere dalla tentazione di fermarsi fino a sedentarizzarsi: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne...» (9,33). Come già per Abram, cosi per Pietro e per tutti noi è necessario attraversare la fase dell’abbassamento della vista, fino al suo assoluto velarsi nel «torpore» (Gen 15,12) del «sonno» (Lc 9,32) per svegliarsi, in modo più sensibile, all’ascolto.

Paolo, nella seconda lettura, evoca i «nemici della croce di Cristo» (Fil 3,18). Ci auguriamo certo di non essere annoverati nel numero di costoro, nondimeno è necessario non darlo per scontato. Infatti, ogni volta che ci fidiamo troppo dei nostri occhi, rischiamo di vedere solo attraverso il velo del «terrore» (Gen 15,12) delle nostre paure che ci bloccano. Allora dobbiamo aprire un poco di più le orecchie e lasciarci guidare dalla voce che dentro ci parla e ci guida in modo più sicuro e più certo dei nostri occhi. Un luogo privilegiato per vivere questo esodo interiore è certamente la preghiera che, in questo tempo quaresimale, siamo chiamati a intensificare non solo a livello di tempo, ma per qualità di attenzione e di disponibilità alla conversione.

Il Vangelo di domenica scorsa sulle tentazioni di Gesù nel deserto e la grande prova che avverrà al Getsemani, proprio mentre gli stessi tre discepoli dormiranno per la tristezza (Lc 22,45), ci indica la via per rendere «altra» la nostra vita: attraversare la notte, attraversare le notti. Vivere fino in fondo la paura che ci viene dalla terribile percezione della lontananza, della distanza, dell’assoluta alterità di Dio e imparare in questa notte, come Gesù sulla Croce, a chiamarlo «Padre».

Questo perché Egli, per primo, ci riconosce come figli, legati a lui da un’alleanza perenne «nel suo sangue».

In questa alleanza siamo liberati da tutte le nostre aspettative su Dio e aperti alla sua gloriosa rivelazione che non è sinonimo di semplicistica familiarità, ma di crescente intimità trascendente... sempre altra e sempre oltre le nostre aspettative e le nostre idolatrie.

Di Fratel MichaelDavide Semeraro, in Rivista La vita in Cristo e nella Chiesa – marzo 2019