Lo spirito del tempo soffia in senso opposto: le tecnologie del “senza contatto”, per nulla condannabili, sono sintomi del tono che vogliamo darci. Efficacia, rapidità, indipendenza. L’andamento del senza contatto è leggero, aereo: realizza a meraviglia il sogno di un’umanità liberata dalla pesantezza dei corpi e dai rischi del contatto. Non è forse questa una delle grandi trappole, quella in cui cade così spesso il cristianesimo, troppo pronto a credersi liberato dal peso dei corpi e delle pulsioni?

Il cristianesimo, molto spesso sospettato di disprezzare il corpo, di costringerlo o di dissolverlo in metafore spirituali, offre tuttavia una stupefacente risorsa per pensare l’articolazione del tatto e dell’intangibile. I racconti evangelici, sovvertendo la categoria religiosa d’intoccabile, che separerebbe nettamente tra il sacro e l’impuro, ci fanno sperimentare ciò che, nella nostra esistenza, attiene all’intangibile, e si presenta non più come un divieto ma come un limite, la condizione affinché nascano relazioni giuste e parole vere, a cui ci iniziano le tradizioni spirituali cristiane.

Saturo di discorsi pubblicitari, d’immagini, di prodezze tecniche, il nostro immaginario è continuamente portato a sognare un’esistenza diversa da quella che ci radica nelle esperienze più elementari della nostra condizione terrestre. Non scagliamo dunque troppo presto la pietra contro questo mondo tecnico-commerciale che potrebbe rilanciarla nel giardino delle nostre concezioni della vita spirituale e, più in particolare, della vita cristiana. La nostra vita ha un peso e i nostri contatti sono i primi a farcelo sentire. Ora, il cristianesimo nutre proprio un senso tattile, chiamiamolo così, dell’esistenza. Credere in Gesù Cristo risorto può evitarci di perdere contatto gli uni con gli altri, senza evanescenza né atteggiamento predatorio. La fede cristiana esercita il tatto. Questa affermazione, lo si intuisce subito, si scontra con l’obiezione che si potrebbe fare al cristianesimo di avere più scartato che promosso il tatto, o di averlo pervertito a favore di predatori coperti da un’istituzione silenziosa e colpevole. Il tatto occupa tuttavia un posto cruciale nella fede cristiana. Questa lo sposta, lo rielabora. Il cristianesimo offre una certa arte di avanzare attraverso gli intoppi della vita, nello stesso tempo a tentoni e con tatto.

Il cristianesimo soffre ancora per la sua morale pudibonda in cui il tatto non può venire che dall’avere ceduto alla tentazione dell’attrazione sensuale della carne e ricondurre a essa. Il tatto nel cristianesimo non è tuttavia oggetto di divieti, ma non è senza limiti.

Gesù tocca e si lascia toccare. Tocca per guarire, come i taumaturghi del suo tempo. Non solo, in un gesto ritualizzato, impone le mani, ma tocca gli occhi, mette le dita nelle orecchie e tocca la lingua (cfr. Marco 7). Gesù si lascia toccare nella folla ma anche nella scena, raccontata in modo diverso nei vangeli, detta “l’unzione di Betania”. Luca scrive: «Ed ecco una donna della città, che era una peccatrice, saputo che egli era a tavola in casa del fariseo, portò un vaso di alabastro pieno di olio profumato. E, stando ai suoi piedi, di dietro, piangendo, cominciò a bagnargli di lacrime i piedi e ad asciugarli con i capelli del suo capo; e glieli baciava e li ungeva con l’olio profumato» (Luca 7, 37-38). Si sa come tutta una tradizione di lettura figurata eviti la questione del tatto o riduca quei gesti a segni d’affetto. Si sarà oggi più sensibili a non metaforizzare il significato di questa scena, ma a capire la portata simbolica di gesti che il racconto evangelico presenta come non figurati. Se vi sono certamente atteggiamenti di pentimento e di conversione, questi s’inseriscono in una relazione sessuata, tra un uomo e una donna, relazione chiaramente espressa nel registro del tatto e dell’odorato. L’abbondanza di baci e di lacrime versate senza remore e accettate senza reticenza indicano l’intensità di una scena dove il corpo è il primo luogo della manifestazione di un desiderio d’incontro.

La scena non porta tuttavia ad alcun sconfinamento se non quello del perdono che Cristo pronuncia. Lungi dal condannarla con la Legge o di trattenerla tra le braccia, Cristo restituisce questa donna alla sua integrità senza toccarla, né farne un’intoccabile. Il perdono avviene nello spazio ritrovato della propria libertà, espressa qui dalla passività di Cristo: lasciandosi toccare, assolve. Senza imporre le mani, né alcun altro contatto, con una sola parola liberatrice perché Cristo resta nel ruolo in cui si è riconosciuto rispettato da questa donna con la reputazione di peccatrice. Senza cedere alla sensualità che i suoi gesti potevano risvegliare — come agli occhi del fariseo — Cristo restituisce a questa donna la sua capacità di amare liberamente. Il tatto non va interpretato metaforicamente, ma come luogo dove l’esperienza sensoriale, ambivalente o indeterminata, passa a relazioni benevole e salutari. Il tatto corporeo ha senso. Le parole di Cristo lo simbolizzano. Toccando, questa donna non si perde più: Cristo non la trattiene là dove lei si faceva prendere. Grazie a lui, lei scopre la porta attraverso la quale passa la sua libertà: «Va’!».

Andiamo a dopo la resurrezione. Due scene ci colpiscono: l’apparizione a Maria di Magdala e l’incontro con Tommaso. Si succedono una dopo l’altra nel vangelo di Giovanni, al capitolo 20, attraverso il primo incontro del risorto con i discepoli, tra i quali Tommaso è in quel momento assente. Si delinea una sequenza. A Maria che si volta verso di lui, Gesù dice: «Non mi trattenere», noli me tangere. Poi, avvisati da Maria Maddalena, i discepoli incontrano Gesù che mostra loro le sue mani e le sue piaghe. Tommaso, assente in questo primo incontro, aveva dichiarato che non avrebbe creduto finché non avesse messo le sue mani nel costato di Cristo, come Gesù, tornando una seconda volta, invita Tommaso a fare: «Metti qua il tuo dito e guarda le mie mani; stendi la tua mano, e mettila nel mio costato». Il contrasto tra queste due scene impedisce di dire che Cristo risorto non può essere toccato. Se sembra che Maria non possa trattenerlo, Tommaso è invitato a toccarlo. La resurrezione non reintroduce il divieto del tatto, come se la divinizzazione della carne la rendesse intoccabile. Sarebbe ritrovare l’altra funzione dell’intoccabile, che stavolta non designa più l’impuro ma il divino, il sacro. Poiché Gesù risorto invita Tommaso ad affondare le dita nella sua piaga, il tatto rimane nell’ordine del possibile e del consentito. Ma il tatto, in queste due scene, è sospeso. Tommaso, sentendo parlare Gesù, che lo invita al tempo stesso a toccarlo e a smettere di essere incredulo, non affonderà la sua mano nella piaga. Esclamerà «mio Signore e mio Dio», autentica proclamazione della fede nella resurrezione di Gesù. Quanto a Maria, lascia in effetti Gesù andarsene e può lei stessa andar via. Seguiamo questo filo che fa passare dall’abolizione dell’intoccabile all’espressione dell’intangibile.

Tommaso, senza che Cristo trattenga la sua mano, non lo tocca: mette lui stesso un limite al suo toccare. Si astiene. Cosa non ha toccato? Le piaghe, le stimmate, i segni attraverso i quali viene riconosciuto colui che è stato messo a morte ma il cui corpo, che parla, è quello di un vivente. Il discorso del risorto a Maria Maddalena aveva esplicitato questo significato. Il vivente non si trattiene. La vita è passaggio che può condurre al compimento. Il limite della morte, segnata dalle piaghe nel corpo che sarebbe possibile toccare, non è più chiusura dell’esistenza individuale ma passaggio. «Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre, ma va’ dai miei fratelli e di’ loro che io salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro». Trattenere il risorto impedirebbe il passaggio del compimento, passaggio che non è di Gesù solo, ma dei suoi fratelli e delle sue sorelle. L’intangibile è la condizione di realizzare il compimento, la possibilità del movimento a cui sarebbe di ostacolo il tatto che trattiene.

Attraverso l’articolazione del toccabile e dell’intangibile è significato ciò che solo conta: non la presenza del corpo del risorto, visibile, toccabile, ma il passaggio al quale Cristo porta attraverso il suo corpo e la sua parola. La fede nel risorto ci fa scoprire che ignoriamo la portata del nostro corpo: il corpo è più di ciò che vediamo e tocchiamo. Ci conduce verso il Padre, là dove si manifesta che siamo chiamati a relazioni di fraternità.

Occultato in una certa vulgata del cristianesimo, il corpo è tuttavia proprio il luogo di nascita della parola credente. Il corpo che si lascia coinvolgere parla a Dio ma parla anche di lui.

La lettura del Cantico dei cantici ha nutrito una lunga tradizione cristiana: Bernardo di Chiaravalle, Teresa d’Ávila, Giovanni della Croce, per citare solo i più famosi. Il linguaggio d’amore del Cantico s’inventa a livello del corpo che si risveglia al contatto della creazione e degli amanti. «Colomba nascosta tra le pieghe della roccia», gazzella, cerbiatto, capre, pecore, tortore, ma anche melo, giglio, vigna. Più che un repertorio, la profusione delle metafore genera un ritmo: la potenza della sensazione non sprofonda in un caos dei sensi ma fa levare una parola di riconoscenza tra gli amanti. L’esplosione dei sensi si ordina all’enunciato del senso: il desiderio è «forte come la morte», parole con le quali si chiude il poema per affermarne il carattere indistruttibile. Questo libro biblico, come i poeti mistici ricorderanno, colpisce per le sue risonanze sessuali. Nella camera la giovane donna sogna: «L’amato mio ha introdotto la mano nella fessura e le mie viscere fremettero per lui. Mi sono alzata per aprire al mio amato e le mie mani stillavano mirra; fluiva mirra dalle mie dita sulla maniglia del chiavistello» (Cantico dei cantici 5, 4-5). L’esegeta Jean-Pierre Sonnet scrive a tale proposito: «Le metafore amorose, poiché attingono direttamente al desiderio, conservano un linguaggio molto vicino all’immaginario, all’affettività e al corpo; la parola diventa estremamente motivante. Se gli amanti del Cantico sono poeti, è per salvare il loro amore, per renderlo ricco di promesse, e per irrigarle di desiderio. In altre parole, è per renderlo forte come la morte».

Ma perché questo libro è stato incluso nelle Scritture? I rabbini nel primo secolo della nostra era hanno avuto l’intelligente saggezza di sottolineare un dato essenziale della relazione con Dio: profumi, colori, sensazioni non si separano dall’esperienza di Dio. Si può capirlo così: la fede accoglie ciò che è in gioco sul piano umano. Nulla della nostra esistenza ha luogo al di fuori della nostra condizione carnale e sensibile. I vangeli, come abbiamo visto, non trascurano nulla di tutto ciò, prima e dopo la resurrezione. Quel che testimonia qui il Cantico, ma altrove numerosissime opere cristiane, è che questa condizione carnale è la base dell’espressione cristiana, il suo substrato, il suo humus. Non ci si separa dal corpo nell’esperienza spirituale.

Che gli amanti del Cantico ricorrano alla loro esperienza sensibile del creato, nel giubilo della sua abbondanza, per inventare una parola che salvi il loro amore, attiene a ciò che è più fondamentale dell’esistenza umana. Questo manifesta la libertà e la speranza che l’uno e l’altra ricevono dal loro amore. La fede cristiana inizia a tale libertà. «Mi sono alzata per aprire al mio amato» diceva l’amata del Cantico: nessuno forzerà la porta per amare in verità.

È particolarmente urgente percepire gli ostacoli della nostra vita interiore e tracciare il cammino in cui s’impegna la nostra libertà. Manifestandosi a me come il vivente che si lascia toccare, Cristo invita a sentire nel più profondo ciò che mi lega, mi attira e mi trascina per lasciarvi sorgere lo spazio della mia libertà. Non è disapprovando il tatto né lasciandolo andare ai suoi impulsi che la mia vita si delinea. Il tatto è sopraffatto dall’esperienza dell’intangibile, che non è la promulgazione di oggetti o di persone intoccabili, nemmeno Dio. I vangeli rivelano ciò che, nelle nostre esistenze, è intangibile ed eccede l’esperienza del tatto come atto di afferrare. Non afferro l’altro, ma lo scopro nel movimento che orienta la mia esistenza. Per la fede cristiana, questo orientamento è dato dalla chiamata di Dio che tiene a noi senza trattenerci, come un Padre felice di vedere i suoi figli e le sue figlie seguire la propria vita. «Va’, la tua fede ti ha salvata» dice Gesù alla donna che, nella folla, gli ha chiesto la salvezza: «Se riuscirò anche solo a toccare il suo mantello, sarò guarita». Dopo averla udita, Gesù non la trattiene. Il mondo che mi è dato di sentire e di gustare palpita d’incontri, sensibili e parlanti. Lo ricevo in condivisione. Chi non misura le sue pesantezze non potrà farsi libero e rispettare l’altro con grazia.

di Patrick Goujon

Il testo integrale dell’articolo è uscito nel numero dello scorso novembre del mensile “Études”

Da http://www.osservatoreromano.va/it/news/il-senso-cristiano-del-tatto