Se questa esperienza è comune a tutti gli inizi, essa si rivela ancora più significativa nel caso del Camino per eccellenza, quello che conduce a Santiago de Compostela. Ho scelto dir accogliere l’invito a partecipare al Camino con il Movimento Giovanile Salesiano per diversi motivi: innanzitutto per vivere questa esperienza con Elisa, la mia fidanzata; per condividerla con mio fratello Andrea e con Elena, Matteo e Flavia, gli altri amici dell’oratorio di Terni; per respirare un po’ di sana e salesiana allegria insieme ad altri giovani degli ambienti salesiani dell’Italia Centrale, dato che il Camino è stato proposto come edizione 2017 del Campo biblico ispettoriale; per misurarmi con una prova fisicamente impegnativa e… forse anche perché fare il Camino di Santiago va un po’ di moda, anche al di fuori degli ambienti di Chiesa.

Non so se ero spinto anche da altre motivazioni ma di sicuro queste sono quelle che riesco a richiamare con chiarezza, quella stessa chiarezza con cui ora mi è evidente che il fine del Camino è molto più alto di quello previsto. Infatti se l’andare è metafora del nostro vivere qui, al termine del viaggio non può esserci qualcosa di banale o facilmente prevedibile: ma questa consapevolezza la si acquisisce solo vivendo il Camino.

Camino che è – in sostanza – un pellegrinaggio, un pellegrinaggio verso la tomba dell’Apostolo San Giacomo. Fon qui, sul piano teorico, tutto regolare. Da sempre i pellegrinaggi prevedono mete cariche di un profondo significato spirituale. Luoghi capaci di attirare lungo i secoli innumerevoli quantità di fedeli mossi da sentita devozione. Lo sapevo anche prima di partire. Quello che non sapevo, anzi che on potevo sapere, è cosa si prova a camminare con le proprie gambe, zaino in spalla, giorno dopo giorno, diretti alla tomba di un Santo. Raramente mi era capitato di pagare con una consistente stanchezza fisica la partecipazione a qualche importante appuntamento di fede: al di là delle GMG di Colonia 2005, Madrid 2011 e Cracovia 2016, il ricordo che la memoria mi suggerisce simile al peregrinare verso Santiago è l’interminabile fila affrontata per salutare nella BASILICA DI San Pietro colui che oggi preghiamo come San Giovanni Paolo II. Una coda di più di 10 ore a piedi, diretti – anche allora – alla tomba di un Santo.

Chiaramente il Camino verso Santiago non ci ha richiesto soltanto 10 ore di percorso: nel nostro caso, avendo scelto il tragitto che inizia dalla località di Sàrria, si è trattato piuttosto di più di 10 decine di chilometri (117 per la precisione) da diluire nell’arco di sei giorni di marcia. Abbiamo così conosciuto sentieri e paesini delle campagne galiziane; abbiamo visto, ascoltato, toccato, odorato, assaggiato l’atmosfera che quei luoghi offrono da più di un millennio a tutti coloro che convergono verso Compostela. Tutto molto caratteristico, piacevole, a tratti idilliaco. E inevitabilmente insufficiente. Perché mentre le gambe (nonostante la fatica, i dolori e le vesciche) continuavano a svolgere con onestà il loro compito, le nostre giornate si arricchivano di una esperienza ben più ricca e feconda. L’incontro quotidiano con la Parola, meditata e condivisa in gruppo grazie alla guida sapiente di don Daniele e sr Anna Maria e con l’Eucarestia, celebrata con le Messe del pellegrino che si tengono ogni giorno in tutte le tappe del Camino. Ecco che allora le gambe non sembrano più girare a vuoto, ecco che la stanchezza iniziava a suggerirci qualcosa che non si può imparare neanche nella migliore palestra del mondo: l’andare ha senso quando la mèta è alta, non c’è da impazzire per nulla di meno. Il vero viaggio, quello che la tomba dell’Apostolo Giacomo e tutti i luoghi di culti non si stancano di suscitare, è il viaggio da compiere con la nostra anima: muoverci conta solo se ci facilità la conversione e l’incontro con il Signore. Da credente praticamente tendo a dimenticare questa evidenza: spesso mi appiattisco sulla routine di cose da fare e di buone pratiche da osservare. Il Camino verso Santiago mi ha aiutato a riscoprirla cucendola pian piano tra gli orli sudati della fronte e i fastidi dei piedi, tra le spalle doloranti e i silenzi e la voglia – nonostante tutto – di andare sempre più in là. Perché qui sta il cuore di un’esperienza come questa: il nostro gruppo era formato da ragazzi e ragazze davvero eccezionali, stare insieme è stato un piacere grande ma la mèta, in questo caso, non è il viaggio: ancora più piacevole dello stare insieme è stato l’andare insieme, ciò che ci ha resi affiatati (e a tratti sfiatati, ma qui poco importa…) è stata la volontà di non fermarci, di camminare, di procedere, di andare avanti. Fare passeggiate in gruppo è bello; camminare insieme con le gambe e con l’anima è meraviglioso.

Termino questa affettuosa ricognizione di memoria guardando alla tappa finale del Camino, la tomba di San Giacomo. La fine è una tomba. Sappiamo che al termine di ciascuna delle nostre storie terrene ci sarà una tomba ad accoglierci: questo ci stimola ad apprezzare ancor più il tempo che abbiamo e ci ricorda che sprecarlo è uno tra i peccati più gravi. Abbiamo però anche un’altra consapevolezza: che se il Camino è metafora del nostro vivere qui, al termine del pellegrinaggio c’è la vita da continuare a convertire nel quotidiano; c’è l’amore che ci chiede chi ci sta vicino; c’è la Vita che si schiude alla sua sostanza più limpida e più vera. Per questo posso dire che il mio Camino non è finito. Per questo – e per nulla di meno – ha senso continuare a camminare.

Luca Leonardi – Salesiano Cooperatore e animatore di Terni