Roma, 6 gennaio 2024 – Epifania del Signore

Epifania di luce

La liturgia di questo giorno di Epifania è un canto alla luce. La Prima Lettura è di tale bellezza ed esuberanza di significati che incanta. Siamo quasi in chiusura di uno di quei libri profetici – quello di Isaia – che lo stesso Nietzsche riteneva di incomparabile poesia, dinanzi alla quale perfino Omero impallidisce.

Con questo “inno alla luce” dei primi versetti del capitolo 60 inizia una sezione che si prolunga sino alla fine del capitolo 62. Si tratta di un testo che presenta notevoli affinità tematiche con il DeuteroIsaia, ma presenta allo stesso tempo una sintesi di tutti i temi tipici del TerzoIsaia, quali il cammino dei popoli, il messaggio di gioia a Gerusalemme, l’arrivo del Salvatore, in cui si incastona come una gemma letteraria.

Considerato uno dei più grandi poemi biblici, in esso il monte del Tempio del Signore appare come un faro che attira tutti i popoli col raggio della sua luce, per donare loro la pace. La luce da questo monte si irradia in spazi cosmici e la pace diventa universale. Lo spirito che anima il canto è nazionalistico e tende a sottolineare il riscatto di Gerusalemme e l’ammirazione di essa da parte di quegli stessi popoli che un tempo l’avevano umiliata.

Simultaneamente il lucore di sole che la colpisce ne trasforma lo spessore reale nell’immagine trasfigurata di una città ideale, conferendole una dimensione escatologica.

Il duplice imperativo: Alzati, rivestiti di luce (v.1) rivolto, anche se in modo sottinteso, a Gerusalemme, serve a stimolare un movimento di reazione: la città deve semplicemente muoversi per collocarsi nel cono luminoso che sgorga dalla Gloria di Dio: deve inzupparsi di essa, diventarne un ricettacolo, uno specchio, una lampada del suo splendore.

Così Gerusalemme sarà di nuovo la “città della Gloria”, quella che in precedenza l’aveva abbandonata (Cf. Ez 10,18-22) e che ora sta tornando a riavvolgerla.

Le basterà diffonderne il riverbero sulle nazioni, tutte coperte da coltri tenebrose, a che i re delle stesse si muovano per venire da lei, poiché non avranno altro luogo cui poter ricorrere per liberarsi dall’oscurità.

Per questo l’esortazione del Profeta incalza sulla Città: Alza gli occhi intorno e guarda (v.4a): questa volta l’oggetto, la visione che apparirà sarà ancora la Gloria del Signore incarnata nella grande epopea del ritorno: tutti costoro si sono radunati, vengono a te. I tuoi figli vengono da lontano, le tue figlie sono portate in braccio (v.4b).

Su un pellegrinaggio di profughi, su un esilio di sfollati, su uno sciame di bambini neonati o feriti tanto da non poter camminare ma da dover essere portati in braccio, rifulgerà la Gloria di Dio! Sul corpo di un “resto” che, scacciato da ogni parte e che ora nudo ritorna a Gerusalemme, immensi tesori saranno riversati: "Allora guarderai e sarai raggiante, palpiterà e si dilaterà il tuo cuore, perché l’abbondanza del mare si riverserà su di te, verrà a te la ricchezza delle genti.

Uno stuolo di cammelli ti invaderà, dromedari di Madian e di Efa, tutti verranno da Saba, portando oro e incenso e proclamando le glorie del Signore." (Is 60,5-6).

Il messaggio è chiaro: la gloria del Signore torna dall’esilio coi deportati; essa cammina sui loro piedi che ora vengono con le ricchezze accumulate fra le genti, per terra e per mare. Gerusalemme pertanto li accolga, perché da essi deriva la sua luce, dal loro ritorno il suo riscatto.

Con gli Ebrei verranno anche alcuni stranieri, e proprio in quella carovana meticcia si rivelerà la luce della Gloria di Dio. La pace sarà a governo della città e sarà il suo giudice e il suo re: bandirà la parola della violenza, dello sterminio e della distruzione; le sue mura di difesa saranno le opere della giustizia; la sua porta di ingresso e di uscita sarà la preghiera.

Essi conosceranno così la libertà, passando per quelle porte, respirando in quell’aria il sapore del dono. Una profezia che attraversa le sfide del tempo e della fede, dell’Amore di Dio e della libertà degli umani e giunge ancora colma del suo limpido e potente messaggio sino al giorno della nascita di Gesù.

La durezza del cuore

Il Vangelo secondo Matteo ci presenta questo giorno riposto nel futuro della Memoria di Israele, ma dai più ormai dimenticato. Persino i re di Giuda non leggevano più le profezie! Erano re vassalli che avevano ridotto il trono del Messia a una maschera di vili complicità utili solo a sé stessi. Un vizio antico dei monarchi di Giuda, denunciato ancor prima della caduta di Gerusalemme: "Guai ai pastori d'Israele, che pascono se stessi! I pastori non dovrebbero forse pascere il gregge? Vi nutrite di latte, vi rivestite di lana, ammazzate le pecore più grasse, ma non pascolate il gregge. Non avete reso forti le pecore deboli, non avete curato le inferme, non avete fasciato quelle ferite, non avete riportato le disperse. Non siete andati in cerca delle smarrite, ma le avete guidate con crudeltà e violenza. Per colpa del pastore si sono disperse e sono preda di tutte le bestie selvatiche: sono sbandate." (Ez 34,2-5).

Dinanzi alla corruzione dei re di Israele, Dio aveva annunciato che Egli stesso sarebbe venuto a pascere il suo popolo. E come nella Prima Lettura abbiamo sentito che i re delle genti verranno dalle loro terre avvolte dalle tenebre a rischiararsi alla Luce di Gerusalemme e della Gloria del suo Tempio, così, nel Vangelo, sono i Magi, sapienti monarchi d’Oriente che vengono ad adorare la Luce che viene da Gesù. Come il “tempio” glorioso di Dio era quella folla di nullatenenti e di profughi, di scacciati e scartati, che si trovava ancora sulla strada del ritorno, così i Magi troveranno la Gloria di Dio in quel nuovo tempio che è la casa dove nasce il bambino Gesù.

Non più a Gerusalemme ma a Betlemme, memoria della piccolezza di David, di quando ancora il figlio di Iesse non aveva il potere sul popolo, tuttavia, lo amava già e lo serviva in maniera del tutto disinteressata. A Betlemme, dunque, sarebbe nato il Salvatore, il nuovo Messia secondo il cuore di Dio. Era scritto nei Profeti, ne aveva fatto oracolo Michea, guardando con tenerezza e gioia la piccola Betlemme: "E tu, Betlemme di Èfrata, così piccola per essere fra i villaggi di Giuda, da te uscirà per me colui che deve essere il dominatore in Israele; le sue origini sono dall'antichità, dai giorni più remoti." (Mi 5,1).

A Gerusalemme i Magi parlano con Erode, un re usurpatore, figlio di Idumei, nemmeno lui, pertanto, giudeo “ortodosso”. Si tratta, infatti, di un discendente di Edom, che è usato nella Bibbia come un altro nome di Esaù, il fratello gemello di Giacobbe cui, quest’ultimo, comprò la primogenitura al prezzo di un piatto di buone lenticchie (Cf. Gen 25,34). Gli Edomiti (i “rossi”) divennero nemici storici dei figli di Giacobbe, i quali, invece, si chiamarono Israeliti per via del nome assunto dal loro genitore dopo che ebbe lottato con Dio: “Israele” (Cf. Gen 32,29).

È chiaro, pertanto, che queste famiglie – quella di Edom e quella di Giuda – sono in realtà originariamente sorelle!

Riconoscere i segni di Dio

Nel ginepraio delle rivendicazioni sulle varie “eredità” di Giuda, sono i re dell’Oriente, i capi dei lontani, a servirsi del fondamento più sicuro: una stella! Con grande intelligenza, con la libertà che la sapienza concede loro, i Magi riconoscono al Cielo l’autorità di decidere chi abbia il diritto al trono di David: non l’immemore arbitrio di Erode e nemmeno l’uso arbitrario delle Scritture, da parte dei Giudei, ma la Verità visibile nei segni dei tempi.

E i segni dei tempi annunciano che adesso è nato un Messia che sarà pastore di Israele. La sua autorità non dipenderà, tuttavia, dal codice genetico né dalla linea genealogica davidica e messianica che porta in Giuseppe il suo ultimo anello (Cf. Mt 1,20: Giuseppe figlio di David), ancorché nel suo Vangelo Matteo le tenga in alta considerazione (Cf. la genealogia di Gesù in Mt 1,1-17). Essendo figlio di Dio Gesù può vantare il suo diritto di “Pastore” secondo la stirpe divina. Egli è, infatti, discendenza di quel Dio che dice: "Eccomi contro i pastori: a loro chiederò conto del mio gregge (…), strapperò loro di bocca le mie pecore e non saranno più il loro pasto. Io stesso condurrò le mie pecore al pascolo e io le farò riposare. Oracolo del Signore Dio. Andrò in cerca della pecora perduta e ricondurrò all’ovile quella smarrita, fascerò quella ferita e curerò quella malata, avrò cura della grassa e della forte; le pascerò con giustizia" (Ez 34,10.15-16).

Un governo divino per la salvezza del gregge del suo popolo, una profezia che oggi si realizza in quel “Bel Pastore” che è Gesù: "Io sono il buon pastore. Il buon pastore dà la propria vita per le pecore. Il mercenario – che non è pastore e al quale le pecore non appartengono – vede venire il lupo, abbandona le pecore e fugge, e il lupo le rapisce e le disperde; perché è un mercenario e non gli importa delle pecore. Io sono il buon pastore, conosco le mie pecore e le mie pecore conoscono me, così come il Padre conosce me e io conosco il Padre, e do la mia vita per le pecore" (Gv 10,11-15).

I Magi riconoscono nel bambino Gesù quel Messia Pastore che sarà fonte di salvezza per tutti i popoli; essi riconfigurano gli antichi re che Isaia aveva descritto mentre salivano, colmi di regali, a Gerusalemme. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, si prostrarono e lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra: il verbo proskynéo indica l’atto di chinarsi sino a terra dinanzi a chi ha una dignità divina.

Quel “resto di Israele” che è Gesù viene riconosciuto e adorato come il Re che renderà giustizia e pace a tutta la terra, liberazione ai miseri, aiuto ai deboli, salvezza ai poveri (Cf. Salmo Responsoriale).

D https://liturgico.chiesacattolica.it/wp-content/uploads/sites/8/2023/12/21/D-Epifania-del-Signore-6-Gennaio-2024.pdf