Essere giusti, secondo Dio, significa passare oltre, come lui, alle debolezze e alle colpe, per sé e per gli altri; Dio non ha bisogno dei nostri pentimenti in quanto tali, non desidera cibarsene come un essere che si nutre di rancore e di vendetta; siamo noi che abbiamo bisogno per noi stessi di riconoscerci peccatori, di riconoscerci capaci di mettere a morte un innocente. Chi rifiuta di ammettere questo non farà che attribuire agli altri i mali del mondo, rinunciando a combattere contro di essi e trasformandosi in accusatore degli altri. Essere affamati della giustizia di Dio come Gesù, significa aver fame dell’Abbà ogni giorno. L’opposto di questa beatitudine non è non aver fame di realizzare oggi, nella nostra vita, ciò che l’Abbà desidera: ci saziamo delle nostre piccole giustizie e non abbiamo più fame di agire come agisce l’Abbà. Non è naturale in noi la fame della giustizia di Dio; dobbiamo dunque desiderarla e volerla. Come pregare e chiedere all’Abbà «il pane quotidiano», se non abbiamo fame ogni giorno di quel pane che è la giustizia di Dio, se non siamo divorati nel nostro intimo dalla passione di far venire il «regno» dell’Abbà? Partendo dai primi secoli della tradizione mistica, l’elenco degli affamati di Dio non ha fine. Teresa d’Avila: «Dio solo basta». Ignazio di Lojola, le cui ultime parole, sul letto di morte, riassumono tutta la tensione della sua vita: «Gesù!». Più vicino a noi, il Curato d’Ars, per ore in estasi davanti al Santissimo Sacramento, non sapeva ripetere altre parole che queste: «Egli mi guarda ed io lo guardo». E Teresa di Lisieux, piena di sacro fervore, infiammata di Dio, dichiarava: «Voglio lavorare soltanto per il vostro Amore, con l’unico scopo di farvi piacere... Voglio ricevere dal vostro Amore il possesso eterno di Voi stesso. Non voglio altro trono e altra corona che Voi, o mio Beneamato!»

Anche ai nostri giorni, le vite che si consacrano a Dio, vengono da ogni parte del mondo. Penso a tutti quei religiosi e religiose, preti e laici, che abbandonano tutto, rinunciando al ministero classico, per rispondere alla voce che viene dal Terzo Mondo: «Vieni, seguimi in America Latina, in Messico, in Cile, in Brasile. Vieni, seguimi in India e in Africa». La fame di Dio si vive facendo propria la fame degli uomini. Fame di pane, ma anche fame di un letto per dormire, per morire, fame di un tetto per ripararsi. E soprattutto fame d’amore. Coloro che hanno sete di vedere il nome di Dio «santificato» vengono a spegnere questa sete nelle bidonville dell’America del Sud, nei moritori dell’India, o i lebbrosari d’Egitto. E prendendo su di sé la fame e la sete del mondo che, uomini e donne consacrati a Dio, vivono questa beatitudine. I profeti parlano della fame e della sete come di una esperienza misteriosa dell’uomo. «O voi tutti che siete assetati, venite alle acque, e voi che non avete denaro venite ugualmente, comprate e mangiate». Is 55,1 «Attingerete acqua con gioia alle sorgenti della salvezza». Is 12,3 Anche i salmi parlano della fame e della sete di Dio, che il pio israelita sperimenta in sé: «Come la cerva anela ai corsi d’acqua, così l’anima mia anela a te, o Dio. L’anima mia ha sete di Dio, del Dio vivente...». Sal 41,2-3 L’uomo non è mai sazio! In genere sotto l’immagine della fame e della sete è espresso l’atteggiamento dell’uomo che ha bisogno, che va cercando, ed è tormentato da tanti desideri e aspirazioni.

È difficile che un uomo sia sazio. L’uomo di ogni tempo, anche del nostro tempo, ha fame e ha sete. Anche nella civiltà del consumismo nella quale viviamo circondati da ogni genere di cose, c’è ancora fame e sete. Non soltanto perché i beni della terra sono distribuiti male e ingiustamente, ma anche perché l’uomo più ha e più vorrebbe avere. C’è dentro di lui una specie di insaziabilità. La fame e la sete dell’uomo in questo senso figurato non hanno, però, una direzione univoca. C’è chi ha sete di denaro e c’è chi ha sete di potere, c’è chi ha sete di amore e c’è chi ha sete di esperienze, di virtù o di vizio. Questo dinamismo dell’uomo che si apre e vuole essere colmato da qualche cosa che è al di sopra di lui, almeno idealmente, e al di fuori di lui, è una esperienza radicale. Da questa fame e da questa sete costituzionali dell’uomo deriva lo sviluppo della storia, della scienza, della civiltà, della tecnica. Se gli uomini non avessero desideri e aspirazioni, tutto si fermerebbe. L’uomo invece è una realtà aperta, che tende sempre, magari inconsciamente, verso orizzonti che sono il superamento di se stesso. Sant’Agostino diceva, con una espressione tanto significativa: «Signore, tu ci hai fatto per te e il nostro cuore è inquieto fino a che non riposa in te» (Confessioni). L’uomo nella sua esperienza può mettere al posto di Dio tutti gli idoli che vuole. Ma ce li mette in questa prospettiva. Se non è orientato verso il Signore passa da un idolo a un altro. E la inquietudine continua. «Beati gli affamati e gli assetati di giustizia»: in realtà potremmo dire: «Beati coloro che sono persuasi in prima persona di non essere giusti»! Questa esperienza spirituale è bene espressa nella parabola. Il fariseo fu rifiutato dal Signore. Il pubblicano se ne tornò giustificato. Questo poveretto che non si sentiva giusto fu colmato di pace da Colui che è la Giustizia.

La giustizia è un dono di Dio. Avere fame e sete di giustizia significa anche essere convinti che noi non siamo e non possiamo essere la nostra giustizia. La giustificazione non è un processo immanente di trasformazione interiore. È un avvenimento nel quale c’è un Giustificatore, che non siamo noi. Noi uomini siamo capaci soltanto di essere giustificati. Solo il Signore è il Giustificatore. Quindi il nostro atteggiamento nei confronti della giustizia non può mai essere la presuntuosa sicurezza di chi la possiede, ma l’umile gratitudine di chi la riceve. Bisogna sentirsi giustificati, e giustificati da un Altro, dal Signore. La giustizia non è il vertice di un’arrampicata di perfezione, nella quale l’uomo eroicamente si cimenta. E un dono misterioso al quale l’uomo è chiamato da Dio. Sappiamo per esperienza che quando abbiamo veramente fame ci prende come una ossessione che non ci permette di trovare interessanti altri obiettivi, altre occupazioni, altri impegni. Questo bisogno del Signore diventa identificante per il religioso. Non è qualcosa di cui si sente parlare, ma una presenza continua. Fame e sazietà sono dono che il Signore porta nella nostra vita, perché la fame non è donata dal Signore se non insieme alla sazietà. Che cosa è la vita religiosa se non un saziarsi di Dio? È un aver fame e sete di Dio, certo. Ma è pure un saziarsi di lui. Altrimenti non sarebbe una beatitudine. In altre parole, l’incontro, il possesso di Dio, in una esperienza viva di comunione è fondamentale per costituire una vita consacrata. Si stabilisce quasi un ritmo continuo: la fame e la sete di Dio ci spingono, ci muovono, diventano come il principio motore della nostra esistenza. E la sazietà di Dio diventa la realizzazione di ciò che la fame e la sete esprimono. La fame e la sete che il Signore sazia non è di beni materiali, bensì è fame e sete di contemplazione di Dio. Qualunque sia il tipo di vita religiosa, bisogna che la fame e la sete di Dio diventino un valore contemplativo, che rendano l’anima consacrata capace di fissarsi in Dio nell’impegno della conoscenza e dell’amore, cioè della fede e della carità.

Contemplare vuol dire guardare fissamente e intensamente. Guardare di sfuggita non è contemplare. Chi contempla si ferma, si centra, arriva addirittura ad un movimento di uscita da sé. E al vertice dell’atteggiamento contemplativo, nella vita del cristiano, sta quel movimento misterioso che è l’estasi: l’uscire da sé per trasferirsi in Colui che si guarda, che si desidera, che si ama. Essere presi, polarizzati dalla presenza di Dio e dalla persona del Signore, tanto da identificarci nell’incontro con lui, più che in noi stessi. Non bisogna pensare che soltanto chi fa professione di vita contemplativa debba avere questi atteggiamenti spirituali. È inconcepibile una vita consacrata dove l’atteggiamento contemplativo non diventi dominante, a prescindere dalla forma nella quale poi questa vita si attua. Le forme di vita religiosa saranno diverse secondo i carismi, i doni, le tradizioni. Ma l’atteggiamento di fondo è questo: una scelta totale ed esclusiva di Dio, che è determinata da fame e da sete di lui, e che quindi si realizza nell’atteggiamento contemplativo. Lasciar mancare questo elemento ad una vita consacrata significa farle correre il rischio di svuotarsi a poco a poco dai suoi contenuti fondamentali e più preziosi. Infatti, la vita religiosa non è una scelta moralistica nella quale si accetta di vivere secondo determinati precetti. È una scelta di persone, nella quale è in gioco la collocazione della propria esistenza nei confronti di Dio e dei fratelli. Qui l’elemento contemplativo diventa dominante. Quando si parla di atteggiamento contemplativo, si intende soprattutto dire che in noi la fede, la speranza e la carità devono entrare in movimento. «Signore, che io ti veda!»: è la domanda o l’impegno della fede. Il desiderio del Signore («Ho bisogno di te!») è l’atteggiamento della speranza. E l’esperienza della comunione è l’espressione della carità. Come si può pensare ad una vita consacrata a Dio, se in essa non si realizza questo dono vicendevole, questo rapporto, dove l’anima ha un bisogno enorme di Dio e Dio ha un desiderio infinito dell’anima? Diceva san Giovanni della Croce: «Se l’anima cerca Dio, molto più il suo amato Signore cerca lei» (Fiamma, III, 28).

È Dio che fonda il nostro desiderio di lui, è lui che lo nutre, è lui che lo ravviva. Noi portiamo il segno, lo stigma del desiderio di Dio nella stessa natura, oltre che nella vocazione di grazia. E attraverso il dinamismo teologale l’azione di Dio diventa stimolante dentro di noi, e noi a nostra volta desideriamo Dio. La consacrazione, cioè l’abbandonarsi a Dio, significa appunto abbandonarsi a questa priorità dell’azione di Dio, a questo essere amati e cercati da lui. Potremmo rileggere il Cantico dei Cantici in questa prospettiva, per capire le cose meravigliose che i Santi hanno compreso e vissuto. Questo struggimento del reciproco rincorrersi di Dio e dell’anima non è una favola, un modo di dire o un romanticismo religioso. È un mistero di rigorosa verità, è storia. L’aprirci a questo mistero è la consacrazione. Per questo motivo la fame e la sete di Dio devono diventare talmente pieni ed esclusivi da rendere insignificanti tutti gli altri bisogni e tutti gli altri desideri. In fondo c’è una controprova per valutare la pienezza della nostra consacrazione: gli altri desideri si ordinano e si armonizzano attorno al desiderio di Dio? Possiamo dire che è così? Se lo possiamo dire, siamo sul cammino della beatitudine. Ma quando i nostri desideri sono contraddittori, disordinati, e sfarfalleggiano in tutte le direzioni, allora vuo dire che fame e sete di Dio non ne abbiamo. Purtroppo, da quando si è dato lo sfratto agli atteggiamenti ascetici si scambiano addirittura le fantasie che affiorano dalla natura e dall’istinto con le mozioni dello Spirito Santo. Così si è irrequieti, in continua fermentazione, senza unità, senza coerenza. C’è una dispersione di interessi e di attrattive. Si dice che i valori umani non bisogna sacrificarli, i sentimenti non bisogna soffocarli, e così via. In pratica si diventa delle creature disarticolate, che non hanno coesione, perché non hanno coerenza (si noti la sfumatura che c’è tra coesione e coerenza). Invece le creature che sono fissate in Dio non intendono altro e non vogliono altro. Trovano tutto in Dio. Hanno raggiunto l’unità. Se si confrontano queste creature tutte prese dal desiderio di Dio con quelle che sono sparpagliate in una moltitudine di desideri e di bisogni, l’indice della felicità, della pace e della fecondità apostolica è a favore delle prime. Si verifica la parola del Signore: «Beati gli affamati e gli assetati della giustizia perché saranno saziati». Di queste creature se ne trovano anche tra noi. E sono quelle che ci incoraggiano.