La Spezia, giugno 2022 – Proposta pastorale 2021-22 per le comunità: AMATI E CHIAMATI “Camminare insieme secondo lo Spirito” p. 173-178 – “Amati da sempre”, Nona Lectio: At 6,1-7.

Contesto

I “sommari” dei primi capitoli degli Atti presentano una comunità ecclesiale tanto perfetta da sembrare una descrizione idealista. In realtà questo è da collegare ad un genere letterario particolare, quello di raccogliere in poche battute un quadro paradigmatico, un modello di riferimento. Ne abbiamo parlato nelle riflessioni precedenti: alcune presentazioni assurgono come “tipo” con valore esemplare. Lo sguardo al passato esemplare, tuttavia, non dev’essere un ripiegamento nostalgico verso la perfezione delle origini; Luca, infatti, non nasconde le difficoltà esterne e interne che avvinghiano la comunità. Tra quelle esterne egli accenna alle persecuzioni nei confronti di Pietro e di Giovanni (cap.4) e tra quelle interne fa allusione alla vicenda di Anania e Saffira (cap.5). Il capitolo 6 si apre con un altro problema, ancora più grande, perché rischia di infettare la comunità, lacerandone il tessuto comunionale. Ma è proprio lì che si rivela la potenza dello Spirito che guida il cammino della Chiesa: è proprio nelle situazioni difficili che scatta il dinamismo della sapienza collettiva e del discernimento comunitario. Pur facendo parte della prima sezione del racconto degli Atti, dove la comunità si trova ancora tutta concentrata a Gerusalemme, l’inizio del cap. 6 presenta una svolta nello sviluppo della Chiesa:

- Il numero dei discepoli è in aumento. Per la prima volta gli aderenti a Gesù Cristo sono designati da Luca con l’appellativo di “discepoli”, cioè i nuovi aggiunti sono assimilati al gruppo storico che seguì Gesù nella sua attività pubblica.

- Per la prima volta è menzionato un gruppo di cristiani di lingua greca. Sono giudei che, vivendo a lungo nella diaspora delle regioni del Mediterraneo, hanno finito per assimilare la lingua, la cultura e i costumi dei greci.

Approfondimento

  1. a) Il problema. Il testo parla esplicitamente di una mormorazione (gonghysmòs). Si avverte un disagio nella comunità; questo disagio è percepito ed espresso in for­ma di malcontento, di malumore. È un fenomeno abbastanza frequente, anche nella Bibbia. Pensiamo al comportamento del popolo d’Israele nel deserto: per ogni disagio un lamento. «Il popolo mormorò contro Mosè: “che berremo?”» (Es 15,24). «Nel deserto tutta la comunità degli Israeliti mormorò contro Mosè e contro Aronne. Gli Israeliti dissero loro: “Fossimo morti per mano del Signore nel paese d’Egitto, quando eravamo seduti presso la pentola della carne, mangiando pane a sazietà! Invece ci avete fatto uscire in questo deserto, per far morire di fame tutta questa molti­tudine”» (Es 17,2). La nuova difficoltà, sorta all’interno della comunità cristiana, viene meglio compresa se pensiamo ad un gruppo in rapida crescita. È inevitabile che un accrescimento numerico porti a difficoltà inedite e persino a conflitti. Finora la comunità è rimasta piuttosto omogenea, ma è giunto il tempo di aprirsi all’eterogeneità. Esistono ormai due gruppi diversi che si scontrano. La tensione emerge nell’assistenza delle vedove, quindi nell’organizzazione dell’opera di carità, ma ciò che si vede non è che l’iceberg di un problema di portata più vasta e con radici profonde. In realtà si tratta delle difficoltà della convivenza di due gruppi di tradizioni, lingue e culture diverse. Il problema sembra di poca importanza, in quanto non tocca il nucleo della fede, ma se non viene preso sul serio, potrebbe evolversi in due modi diversi di concepire la vita cristiana generando incomprensioni, traumi e persino divisioni. Per di più, questa tensione si fa sentire proprio nel momento in cui la comunione di fede dovrebbe diventare visibile e operativa: nella testimonianza di carità.
  2. b) La soluzione del problema. Come reagisce il gruppo dei Dodici? Gli Apostoli avrebbero potuto imporre la loro autorità mettendo a tacere i malcontenti o esortando alla pazienza nel sopportare il disagio, avrebbero potuto minimizzare il problema facendo il gioco dello struzzo o parlottare tra loro stigmatizzando ogni dissenso. Invece, lungi dalla sottovalutazione, essi intervengono affrontando insieme il problema con saggezza e realismo. Questo «malcontento» appare agli occhi dei Dodici come una opportunità per chiarire meglio anzitutto le proprie responsabilità e il proprio ruolo. Iniziano con un’autocritica: «Non è giusto che noi lasciamo da parte …». Con onestà individuano dei difetti nel proprio agire e confessano anche le proprie colpe. E da qui parte un processo di migliore comprensione della propria identità e di una nuova consapevolezza della propria responsabilità verso la comunità. Lo studio e la soluzione del problema avvengono in modo collegiale. Tutti sono convocati, per iniziativa dei Dodici, al tavolo della discussione e tutti partecipano. Alla comunità viene riconosciuta una propria dignità e corresponsabilità. I Dodici danno la precedenza al protagonismo della comunità: «cercate, fratelli, tra voi sette uomini… Noi invece ci dedicheremo…». Non si tratta di scaricare su altri i propri doveri, ma di riconoscere che c’è spazio e responsabilità per tutti. La pedagogia adottata è quella del dialogo, che aiuta a ricomporre l’armonia dopo la “mormorazione” e il conflitto. Il discernimento segue la traiettoria di vedere il problema, di giudicare la situazione e di agire con coerenza. Essi prendono coscienza della nuova situazione, vedono la necessità sia di distinguere i ruoli sia di articolare meglio la comunità al suo interno. Arrivano, alla fine, ad una proposta concreta. Si tratta della prima scelta strutturale e pastorale della Chiesa, una scelta innovativa: l’istituzione di un nuovo ministero che si prenda cura dell’opera di carità. È solo una nuova divisione di lavoro? È solo un modo di accontentare i cristiani di cultura greca dando loro spazio e possibilità di maggior partecipazione? Chi pensasse così ridurrebbe e sminuirebbe il senso teologico che Luca attribuisce a tutta questa vicenda. La tensione tra i due gruppi in realtà ha spinto i discepoli ad ampliare la loro visuale, ha stimolato la loro creatività ad inventare vie pastorali più ardite secondo la necessità della situazione; allo stesso tempo ha provocato in loro una presa di coscienza più profonda del loro compito all’interno della Chiesa: «Noi invece ci dedicheremo alla preghiera e al ministero della parola» (At 6,4). Essi non sono il factotum nella comunità, ma ora risulta più chiaro che bisogna distinguere: ci sono delle priorità e ci sono dei compiti che competono loro in modo esclusivo in quanto testimoni oculari della vita terrena di Gesù, mentre altre mansioni possono essere di una competenza sussidiaria. All’onestà dei Dodici l’assemblea risponde con altrettanta lealtà e responsabilità. L’assemblea decide di istituire un nuovo gruppo, al di fuori del gruppo dei Dodici, che ha la missione specifica di gettare le fondamenta della Chiesa. Gli Apostoli indicano, quindi, i criteri concreti per la scelta dei sette uomini: buona reputazione, spirito di sapienza. Si realizza così il primo processo di discernimento collettivo. La vocazione a predicare la parola di Dio viene distinta dall’opera di servire alle mense. Gli Apostoli riservano per sé il compito irrinunciabile della «preghiera» e del «servizio della parola». La proposta avanzata dai Dodici incontra il pieno consenso della comunità, che procede alla scelta dei sette. Il risultato è innovativo e coraggioso: i sette nomi sono tutti greci. Nell’elenco delle persone scelte per primo viene nominato Stefano, il quale si distingue per la pienezza «di fede e di Spirito Santo». Egli risponde perfettamente ai requisiti richiesti e di lui Luca racconterà in seguito un discorso dettagliato e il resoconto della sua morte (At 6,8-7,60). Nicola, l’ultimo dell’elenco, viene indicato come un proselito di Antiochia. Degli altri soltanto Filippo sarà in seguito menzionato (8, 26ss). I neoeletti vengono presentati agli Apostoli e insediati nel loro ufficio mediante l’imposizione delle mani accompagnata dalla preghiera. L’imposizione delle mani è un gesto che riprende un’antica usanza giudaica, già attestata nell’AT per indicare la trasmissione di determinati poteri (cf Nm 27,18; Dt 34,9). Con fiducia, stima e chiarezza la nuova responsabilità viene affidata agli eletti: «…ai quali affideremo questo incarico» (v.3). Abbiamo qui la prima forma di organizzazione ecclesiale, dopo la composizione del gruppo apostolico; è un primo passo verso la distinzione dei ruoli e la collaborazione diversificata. Una indiretta approvazione della nuova struttura e una conferma del ritrovato equilibrio all’interno della comunità vengono dal versetto conclusivo: «E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente». Grazie alla designazione dei sette, la crisi interna è superata. La rimozione dell’ostacolo permette alla prima Chiesa di riprendere il suo progressivo e gioioso cammino di crescita. La nuova organizzazione adottata all’interno della comunità è, da subito, apportatrice di frutti. Il versetto finale sembra esprimere il placet dello Spirito Santo che benedice una comunità che ha trovato la capacità e la forza di affrontare e superare i propri problemi.

Dal testo alla vita

Nel documento della Congregazione per gli Istituti di vita consacrata e le Società di vita apostolica Il servizio dell’autorità e l’obbedienza si legge: «Nel­la vita consacrata ognuno cerca con sincerità la volontà del Padre, perché diversamente sarebbe la ragione stessa della sua scelta di vita a venire meno; ma è ugualmente importante portare avanti insieme ai fratelli o alle sorelle tale ricerca, perché è proprio essa che unisce, rende famiglia unita a Cristo. L’autorità è al servizio di questa ricerca, perché avvenga nella sin­cerità e nella verità» (n,12). Luca sarebbe d’accordo con queste affermazioni. Egli ci tiene a mettere in risalto lo stile particolare della guida della comunità esercitato dai Dodici, uno stile di leadership che si esprime in ciò che potremmo chiamare “si­nodalità” (syn-odos = fare strada insieme, camminare insieme). Apostoli e discepoli cercano insieme la volontà di Dio in vista di un servizio, diakonia, a favore della comunità. At 6 racconta il primo discernimento “sinodale” della comunità; in seguito ne faranno altri in diverse forme e in varie oc­casioni, in particolare ricordiamo l’assemblea di Gerusalemme (cap. 15) che costituisce il centro architettonico degli Atti e rimane un modello per la ricerca teologica e per il confronto ecclesiale in ogni epoca. Le tensioni causate dalla diversità di vedute, secondo Luca, possono essere superate mediante una lettura attenta dell’azione di Dio dentro gli avvenimenti e le esperienze storiche, in un clima di apertura allo Spirito e nella dinamica comunitaria collegiale dell’amore fraterno.

Per pregare e condividere

- Nella vita comunitaria, e in particolare nell’esercizio del servizio dell’autorità, è necessaria la saggezza di intuire che dietro certe «mormorazioni» ci possono essere delle motivazioni molto serie, come appunto lo sono le differenze culturali. Mettere a fuoco le motivazioni implicite di certi malcontenti aiuta a prendere soluzioni adeguate e corrette. Lo Spirito ci conceda questa saggezza!

- In At 6 la soluzione del problema è fatta con creatività. Le nuove esigenze spingevano ad avere il coraggio di inventare nuovi ruoli, nuovi stili, nuovi servizi, di stabilire nuovi equilibri. Lo Spirito ci dia inventività e coraggio!

- Dopo l’incontro fraterno e la decisione collegiale il testo si chiude con queste parole piene di ottimismo e di speranza: «E la parola di Dio si diffondeva e il numero dei discepoli a Gerusalemme si moltiplicava grandemente» (v.7). La parola di Dio cresce e fa crescere la Chiesa. Questa conclusione, tuttavia, si rivela come una pausa prima della nuova tempesta sulla comunità ancora fragile: la persecuzione, il martirio di Stefano e la dispersione del gruppo dei “sette” eletti. Ogni problema risolto non toglie di mezzo futuri altri conflitti e difficoltà, altre nuove sofferenze e fatiche. Lo Spirito ci renda forti e pazienti!