E so, so bene quanta delicatezza occorre nel maneggiare i nostri mostri. E quelli degli altri. Quanta delicatezza… persino nel dire ciò che vorremmo urlare: che abbiamo imparato che proprio quella ferita è stata la sacra feritoia, che proprio quella maledizione si è svelata come benedizione. E no che non lo si può gridare, sbandierare: per un po’ io l’ho detto, gioiosa, stupita, volevo poter testimoniare di questa trasformazione della Bestia (ognuno di noi ha la sua) in totalmente Altro.

Ma ho capito, ho capito che, persino, può risultare violenta la nostra resilienza… se incrocia un altro che sta combattendo col mostro, adesso, la battaglia più cieca. Nessuno può dire/insegnare ad un altro come si sta nel dolore.

Ecco perché ho cominciato col cambiare le parole: l’ultimo strato di pelle che dovevo levare era proprio quello del retaggio della mia professione, la presunzione di “insegnare” come se le questioni d’anima fossero contenuti disciplinari.

Ecco perché quando, a ottobre scorso, è uscito quell’ennesimo libro-non libro (perché minuto come un Puffo, e pure blu, anche lui), dopo la prima… ho rifiutato tutte le presentazioni. Si chiama “La ferita che cura”, dalla illuminazione per me straniante e curativa, di una collega pisana che mi aveva convocato attorno a questo assurdo ossimoro. E ha un nome assai pericoloso: no, non poteva essere che, sebbene incredibilmente possibile agli uomini e le donne, una qualsiasi professoressa se ne andasse in giro a insegnare come stare ognuno dentro la sua morte e che esistesse la “bellezza collaterale”. E sono rimasta zitta.

Per la verità, il dolorosissimo anno che ha preceduto quel libro è stato esattamente questo: la mia seconda esperienza di silenzio, di ammutolimento, di impotenza profonda delle parole (le mie).

Così a Natale scorso ho chiesto a Dio quale potesse essere la “forma” giusta: quella non violenta, che consentisse di attraversare i territori della morte, tutti comuni e tutti profondamente singoli e singolari, senza il bisogno di dare risposte. E senza il bisogno di assecondare chi le cerca: le risposte, le ricette, le giaculatorie che all’istante fanno la magia.

E no che non esiste magia: persino tutto il senso di 8 libri di Harry Potter sta tutto qua. La magia non può sollevarci dall’incontro con la Bestia: la paura di morire, il limite, la spavalderia di una vita che vorremmo fosse già da ora soltanto eterna.

Non esiste magia che possa scansarci dalla fatica: dal lavoro. Dal lavoro su di sé, lo scavo d’anima che non è possibile delegare: né a madri e padri, né a figli e figlie, né a confessori né a direttori spirituali. Neppure a Dio stesso: Lui sta lì, maternamente e paternamente, ad aspettare che noi si alzi la schiena, lo sguardo, il calcagno.

Ed ecco: lì, nell’ennesimo buio che mi faceva povera per l’ennesima volta (ma come? Non era già abbastanza? È proprio vero che siamo fatti a strati, e che giungere al nervo più scoperto richiede fatica, si, almeno quattordici stazioni, no?) … ho compreso che l’unico modo per onorare tanto il silenzio che la parola, tanto la delicatezza del non assumersi a esempio, tanto il desiderio di condividere il tesoro scoperto… sta nell’ “Arte”. Esattamente…quale? Non una, ma tutte.

Laura Formenti ha scritto e scrive pagine bellissime a proposito dell’arte della “ricomposizione”, la spinta creativa e incessante del ritmo che alterna “composizione” e “decomposizione”. Lei cita sempre i muretti a secco, per dire di una competenza che è fatta di questo: tenere insieme, lasciar andare, e amare i pieni così come i vuoti.

A me ispira di più quello che accade in una jam session.

Ma va bene ogni immagine che preferiamo, per dire che Arte è ricerca, ricerca costante, sì, esattamente lo stesso spirito della Scienza, non il suo contrario.

E allora?

È nato così un piccolo esperimento, senza una che spiega o discorre intorno al dolore ma… un piccolo gioco dadaista di composizione e ricomposizione: così che ogni volta che mi invitano, c’è sempre un diverso spartito, una narrazione che mai è uguale a se stessa, perché sempre diversa è la parte che io stessa in quel momento sto guardando meglio. Parole, musica, immagini: tutto insieme mescolato, come ognuno di noi è: arte di mescolanza, ibridazione, meticciamento.

La “forma” è una meta-forma oppure, chissà, a qualcuno potrebbe apparire dismorfica: già.

Non è forse lo stesso per la nostra esistenza?

Noi a cercare di darle forma…e quella a romperla, a disfarla.

Ho deciso di raccontare qui di questa mia ricerca, che è interiore e anche professionale, non per fare pubblicità al “piccolo teatro di narrazione” che ne è nato: no, giuro, anzi, che non riesco a portarlo sempre, lì dove mi chiamano. Poche volte ci riesco.

No: ho deciso di raccontarlo qui, perché questo numero di Vocazioni mi ha convocato proprio su questo. Proprio su questo: e non so più (meno male!) compiere riflessioni sistematiche. Conosco solo destrutturazioni, percorsi a zigzag. Mio malgrado, s’intende: confesso di desiderare migliore capacità d’ordinata ricognizione. Ma per ora sto qui: dentro questa faticosa e faticata forma di ricerca complessa, composita, più rizomatica che lineare.

Un collega ha scritto che non approvava un mio testo a proposito del dolore perché “lascia al lettore la responsabilità di decidere da sé” mentre, invece, (a suo dire) “la pedagogia deve indicare la strada”: all’inizio ho sofferto, soprattutto per il tono violento all’interno del quale era questo disprezzo. Poi… gli sono stata grata, inaspettatamente per il mio schema classico di reazione ai rifiuti. Ma è grazie a lui che ho messo a fuoco: tutto questo perdere, rompermi, incontrare bestie e notti, ha evidentemente fatto il suo buon lavoro: e no che non devo indicare io la strada. Nessun educatore può. La strada è Gesù, il Dio rivoluzionario, il Dio-rivoluzione.

Noi possiamo questo: raccontare, con delicatezza, d’essere morti e risorti. Oh, ma mica una volta per tutte: quella sarà più avanti. Qui, mentre si vive, è roba quotidiana: morire, resuscitare. E poi ancora. E allora anche il mio intervento qui ha la stessa bizzarra forma: ci sono libri e link.

Nessuno utile, tutti utilissimi.

Nessuno ha la risposta, tutti ce l’hanno. Sicché la composizione/ricomposizione non è mai perfetta, perché proprio i vuoti che lascia siano gli spiragli per tutte le Ri-Scritture possibili: che questa, sì, è la buona notizia. L’eternità, anche adesso, di già.

Per continuare al leggere https://rivistavocazioni.chiesacattolica.it/2019/06/15/prendersi-cura-tra-fragilita-e-bellezza/