Chiamare la Curia, i Vescovi e tutta la Chiesa a portare una speciale attenzione alle persone dei giovani, non vuol dire guardare soltanto a loro, ma anche mettere a fuoco un tema nodale per un complesso di relazioni e di urgenze: i rapporti intergenerazionali, la famiglia, gli ambiti della pastorale, la vita sociale... Lo annuncia chiaramente il Documento preparatorio nella sua introduzione: «La Chiesa ha deciso di interrogarsi su come accompagnare i giovani a riconoscere e accogliere la chiamata all’amore e alla vita in pienezza, e anche di chiedere ai giovani stessi di aiutarla a identificare le modalità oggi più efficaci per annunciare la Buona Notizia. Attraverso i giovani, la Chiesa potrà percepire la voce del Signore che risuona anche oggi. Come un tempo Samuele (cfr 1 Sam 3,1-21) e Geremia (cfr Ger 1,4-10), anche oggi ci sono giovani che sanno scorgere quei segni del nostro tempo che lo Spirito addita. Ascoltando le loro aspirazioni possiamo intravedere il mondo di domani che ci viene incontro e le vie che la Chiesa è chiamata a percorrere».

I giovani qui sembrano essere un’occasione perché la Chiesa ritorni ad essere sensibile allo Spirito e capace di scorgere gli appelli di Dio nella storia degli uomini.

Effettivamente la domanda sui giovani, sulla loro fede e sul discernimento vocazionale apre il campo non solo ad analisi sociologiche sulla condizione giovanile, ma soprattutto ad approfondimenti teologici e pastorali. Sappiamo che la migliore analisi empirica sui giovani deve lasciarsi poi fecondare da domande eminentemente teologiche: “Dove Dio è presente in questa situazione?”; “Dove lo Spirito del Signore sta agendo?”; “Quali appelli Dio rivolge alla sua Chiesa attraverso questa determinata situazione?”; “Quali azioni pastorali sono necessarie per venire incontro a ciò che si è scoperto e compreso?”.

Queste sono domande che non possono essere eluse, perché ci aiutano ad avvertire la presenza di Dio e scorgere la sua stessa identità, che possono essere intuite solo a partire dalla sua azione nella storia. All’inizio del libro dell’Esodo, il libro che narra del passaggio dalla schiavitù al servizio, dalla cattività egiziana alla libertà della promessa, lo stile pastorale di Dio è ben evidente:

Gli Israeliti gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Dio ascoltò il loro lamento, Dio si ricordò della sua alleanza con Abramo, Isacco e Giacobbe. Dio guardò la condizione degli Israeliti, Dio se ne diede pensiero (Es 2,23-25).

I quattro verbi usati possono a ben vedere rappresentare uno stile pastorale preciso che caratterizza non solo il modo di essere e di agire di Dio, ma anche quello della sua Chiesa:

  • Ascoltare. Significa prima di tutto lasciare spazio all’altro, mettendosi in stato di passività ricevente, lasciandosi colpire da un gemito, una sofferenza, una parola di richiesta. È il momento dell’empatia, dove si raggiunge la lunghezza d’onda dell’altro, della sua precisa situazione esistenziale;
  • Ricordare. È il verbo del cuore, della profondità, del legame riconosciuto e accolto, della filialità attestata, dove si porta ciò che si è ascoltato nell’interiorità della propria identità paterna. È il momento dell’identità, dove è importante rimettere al centro i legami generativi e genetici;
  • Guardare. È il verbo dell’indagare, dell’entrare attivamente nelle situazioni, nel cercarne le cause e le radici, dello scrutare con intelligenza le cose così come sono. È il momento dell’intelligenza, dove è importante saper penetrare nelle cose fino in fondo;
  • Darsi pensiero. Qui si tratta di agire, di mettere in atto delle azioni concrete, di pianificare un percorso concreto che giunga a dei risultati, chiamando a raccolta coloro che ci possono aiutare. È il momento della progettazione, capace di rendere operativi i momenti precedenti.

Dio agisce così, con pazienza, lungimiranza e passione, «come un’aquila che veglia la sua nidiata, che vola sopra i suoi nati, egli spiegò le ali e lo prese, lo sollevò sulle sue ali» (Dt 32,11). Così la sua Chiesa è chiamata ad agire dispiegando le proprie ali in ampiezza, larghezza, altezza e profondità perché tutti possano essere presi e sollevati. Portando avanti un cammino di progettazione capace di far emergere uno stile ben preciso di Chiesa, conforme e coerente rispetto a quello di Dio.

Rimane chiaro comunque che la pastorale non va improvvisata, ma progettata. Purtroppo sulla parola “progettazione” grava la precomprensione di qualcosa di “aziendale”, di “tecnico” e di “scientifico” che non si addice ai cammini della Chiesa, che dovrebbero invece essere guidati dalla libertà dello Spirito e quindi non sottomessi a dinamiche che lo possano imprigionare. Ma, ci chiediamo, si può “progettare nello Spirito”, oppure questi due termini (progettazione e Spirito) si autoescludono per definizione?

Il Dossier che viene qui presentato ci viene incontro, aiutandoci a svincolare la parola “progettazione”, riscattandola da un alone di negatività che si è alimentato in questi ultimi decenni e facendola tornare ad essere una parola imprescindibile nel nostro vocabolario ecclesiale.

Michal Vojtáš, salesiano slovacco e docente di “pedagogia salesiana” e di “sistema preventivo” presso l’Università Pontificia Salesiana ci offre un prezioso studio che riporta dentro la progettazione pastorale parole come “vocazione” e “spiritualità”, un tempo estromesse decisamente da questo campo. La vera novità, mi pare, risiede non solo nella metodologia “tras-formativa” proposta in cinque tappe – situazione descritta, interpretazione comunitaria, vocazione accolta, visione sperimentata, progettazione operativa – che affondano la loro radice profonda in un momento decisamente spirituale e vocazionale, ma soprattutto nella pressante richiesta di passare da una “progettazione virtuale” ad una “progettazione virtuosa”. Colui che progetta virtualmente in genere decide in maniera verticistica e unilaterale ciò che vuole e poi cerca una corresponsabilità solo esecutiva da parte degli altri membri della comunità; chi invece progetta virtuosamente sa che ognuno ha qualcosa da dare e da dire e quindi cerca sempre una corresponsabilità a tutto tondo da tutti i membri della comunità, perché la migliore idea può venire da qualunque membro della comunità, proprio perché lo Spirito «soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove viene né dove va» (Gv 3,8).

L’idea di fondo risiede nel fatto che non esiste progettazione educativa e pastorale senza una comunità di fede, che viva quotidianamente alcune virtù personali e altre pro-sociali ben precise: dal punto di vista individuale la fedeltà creativa, il discernimento personale e la coerenza operativa; dal punto di vista comunitario la generosità sistemica, l’accompagnamento generativo e l’integrazione sinergica.

Lavorare personalmente e comunitariamente per crescere in ciascuna di queste virtù, verificando con verità dove le cose vanno già bene e dove invece abbiamo bisogno di autentiche conversioni, è un compito ineludibile per noi che vogliamo essere una Chiesa sensibile ad uno Spirito attivo che si fa vivo e parla attraverso la vita dei nostri giovani e ci chiede di camminare secondo il Vangelo per rispondere ai loro appelli.

http://notedipastoralegiovanile.it/index.php?option=com_content&view=article&id=13170:gli-orizzonti-del-sinodo&catid=499:npg-annata2018&Itemid=207