E infatti, l’apostolo ricorda che a Corinto si osservano le tradizioni che egli ha insegnato (1Cor 11,2). È in questo contesto che bisogna collocare la sua turbata reazione di fronte alle divisioni che si stanno verificando nell’assemblea eucaristica (1Cor 11,8) di cui ha avuto notizia. Oggi non ci è possibile ricostruire la problematica concreta. Una cosa, però, è indubbia: la radice delle tensioni è socioeconomica. Anche se i credenti continuano a riunirsi, consumano separatamente i propri alimenti. Poiché non sanno attendere e non vogliono condividere con coloro che arrivano dopo e portano di meno, la loro celebrazione non può più essere considerata una «cena del Signore» (1Cor 11,20-21).

La tradizione di Gesù ed il commento apostolico (1Cor 11,22-33)

La reazione paolina parte dalla constatazione delle divisioni all’interno della comunità (1Cor 11,17-22). Non è un fatto da lodare quello di utilizzare le assemblee liturgiche per rimarcare le differenze esistenti tra cristiani, poiché l’assemblea dei credenti è – e deve rimanere – luogo di fraternità. Dietro l’argomento vi è una precisa comprensione della comunità cristiana. Non si viene ad una convocazione (= «ekklesia») con i propri averi, ma volendo rispondere ad una chiamata; l’unità nasce e rimane possibile in una opzione di Dio per il fratello, che dev’essere rispettata. Alimentare, quindi, divisioni che esistevano prima della chiamata comune, per quanto possa sembrare naturale, costituisce un attentato contro Colui che ci chiamò, perverte la Sua volontà di riunirci in un luogo comune, sotto un solo Signore e con un solo Spirito.Proprio perciò non deve sorprenderci l’inatteso giudizio sull’ineluttabilità delle divisioni: aiutano la comunità ad individuare nel suo seno i migliori. La divisione pone la comunità in stato di verifica. È un’occasione per individuare i suoi membri più fedeli. Risulta curioso che Paolo, che non può lodare la comunità divisa, affermi senza restrizione alcuna che è volontà divina l’esistenza di tali divisioni. La vita in comune, che è una grazia da rispettare, è anche una conquista da mantenere, un dono da difendere, una passione per cui soffrire. Perseverare in una comunità tesa o divisa presuppone di contare sull’approvazione di Dio e sul riconoscimento della Chiesa; la fedeltà diviene manifesta nella vita comune provata.

La memoria è normativa. Ricordando ai corinzi la tradizione dell’istituzione della Cena, Paolo apporta l’elemento decisivo della sua critica: non è padrone del ricordo chi è obbligato a fare memoria. Alla comunità non tocca “inventare” la celebrazione, ma “imitare” il gesto originale. Non per niente il racconto paolino differisce dalle altre tradizioni (Mc 14,22-25; Mt 26,26-29; Lc 22,14-20), significativamente, per la doppia imposizione del ricordo (1Cor 11, 24.25): il pane benedetto è il Suo corpo dato, e il vino bevuto l’alleanza nel Suo sangue. Entrambe le azioni sono il “contenuto” della memoria comunitaria. Un’eucaristia che non avviene in fraternità, un ricordo di Cristo che non ricorda il fratello nel bisogno, una celebrazione della dedizione di Gesù che non si memorizza con la propria dedizione, è un attentato contro l’eucaristia, perché fa del gesto di Cristo un simulacro. L’azione istituzionale di Gesù, il suo consegnarsi per noi e la sua alleanza consumata impone delle azioni che la ripetano a coloro che ne fanno memoria. Altrimenti non rispettano la volontà testamentaria del Fondatore e ne sovvertono la memoria. L’offesa di coloro che ricordano Cristo senza ricordarsi del fratello è, quindi, diretta a Cristo stesso. È lì la “gravità” della mancanza di memoria del fratello. Essendo l’attualizzazione del dono di Cristo ciò che dà un senso alle riunioni eucaristiche, esse si devono celebrare donando quanto si ha al fratello che non ne ha o ha poco di meno. L’Alleanza sigillata col suo sangue ci lega a tutti coloro con cui Cristo si è alleato. Non può ridursi ad un passatempo innocente il fare memoria «della notte in cui Cristo fu tradito» (1Cor 11,23). Senza dedizione al fratello, “concelebrante” dell’eucaristia, non vi è memoria “degna” di Cristo Gesù.

Senza ricordare la necessità del fratello non si ricorda la morte di Cristo. Paolo aggiunge al racconto un commento personale in cui traspare la sua comprensione della celebrazione eucaristica: la considera annuncio della morte di Gesù ed attesa del suo ritorno. Non si può, pertanto, ridurre il ricordo di Cristo ad una semplice fraternizzazione: la solidarietà e l’aiuto mutuo non giustificano la distribuzione del pane e del vino. Ogni raduno eucaristico, essendo annuncio della Sua morte e testimonianza della nostra attesa, la libera dalla tentazione di ridursi a semplice festa di fraternità. La comunità cristiana, nata dalla Cena del Signore, annuncia di nuovo la dedizione di Cristo e ne preannuncia il suo ritorno. Se ciò non implica che sia il fratello a costituire il tema e la causa dell’eucaristia, lo individua però come la sua condizione e garanzia di verifica. La partecipazione al pane e al vino, che annuncia la morte e il ritorno del Signore Gesù, non sarebbe degna senza condivisione dei beni. Il fratello, ‘ricordato’ perché si ricorda Cristo morto e risorto per tutti, rende più sincera la nostra proclamazione della sua dedizione e più sopportabile l’attesa della sua venuta. Chi si ricorda del fratello e prende sul serio il suo bisogno, mentre ricorda Cristo, proclama al mondo che la Sua morte è salvifica e si prepara alla sua venuta definitiva. Non è il fratello trascurato nelle celebrazioni, ma Cristo stesso non annunciato la radice dell’indegnità della comunità di Corinto, come mette in chiaro Paolo facendo rilevare, con un realismo stringente, la gravità della dimenticanza. Chi non è degno di quanto celebra è reo del corpo e del sangue del Signore. La mancanza era forse una trascuratezza, un attentato quasi inconsapevole contro la fraternità. In realtà viene svelata come un attacco al corpo di Cristo. La presenza del Signore costringe ad esaminarsi, perché la scarsa chiaroveggenza non scusa la mancanza. Chi non discerne alimenta con la propria ignoranza o indolenza la propria condanna. Il consiglio dell’apostolo è opportuno: in una comunità che ha dimenticato l’origine e il motivo della celebrazione, che non prende sul serio il fatto che il Signore si è consegnato per tutti, che riceve il Suo corpo senza distribuire i propri averi, che si riunisce per approfondire ancor più le proprie divisioni e disuguaglianze, deve ricordare che mette in gioco la propria salvezza. Perché non si può impunemente mangiare un pane che viene donato e rifiutarsi di ripartire il pane che si ha. Chi celebra l’eucaristia senza aprirsi al fratello è reo del corpo del Signore.

Il motivo della memoria apostolica (1Cor 11,17-18.22)

Occorre notare che si deve ad una sgradevole – secondo Paolo, disonorevole – situazione comunitaria il primo racconto dell’Ultima Cena. Se un conflitto che nasceva da differenze così estranee alla fede – e d’altra parte comprensibili nella vita di qualsiasi gruppo umano – come possono essere le differenze sociali, ha dato origine a questo “ricordo apostolico”, ciò significa che qualunque crisi all’interno di una comunità apostolica, compresa quella che non deriva immediatamente dalla confessione della fede comune, può essere risolta facendo memoria della tradizione evangelica. Il racconto più vicino -  tra i quattro conservati nel NT - agli eventi narrati è stato motivato da alcuni fatti in netta contraddizione con quanto veniva ricordato. Quel che è ancora più sorprendente è che oggi possiamo considerare come Parola di Dio non solo il racconto paolino della Cena di Gesù e le sue applicazioni alla situazione comunitaria, ma anche quel conflitto vergognoso. Il peccato della comunità, un peccato che nasce e si alimenta in base a disuguaglianze sociali interne, ha motivato l’apostolo a ricordare il comportamento di Gesù nella notte in cui fu consegnato. E continua ad essere oggi “Parola di Dio” per ogni comunità cristiana che si riunisce per celebrare la memoria eucaristica di Cristo. Ciò ha come conseguenza che dobbiamo sentirci coinvolti nel giudizio di Paolo contro i corinzi noi tutti che facciamo memoria di Cristo. Nessuno può ricordarsi di Lui e dimenticare il fratello di fede. La celebrazione del memoriale di Cristo deve avvenire nella celebrazione della fraternità confermata dai fatti. Tutto il resto è disonorevole, non solo per l’individuo che alimenta il proprio egoismo nei confronti del fratello bisognoso, ma innanzitutto per la comunità, che permette un simile comportamento mentre fa memoria della dedizione di Cristo per tutti. È consolante avvertire che Paolo non proibisce la celebrazione solo per il fatto che essa si realizza indegnamente, ma esorta a responsabilizzarsi del bisognoso per ricuperare dignità. Vi è quindi un modo per uscire dal disonore comune: prendersi cura del prossimo bisognoso senza tralasciare di ricordare Cristo. Il “peccato corinzio” consisteva nel fatto che i credenti, pur riuniti in un unico luogo e ricordando un unico Signore, non si riconoscevano già affratellati dalla memoria comune e dal pane che avrebbero condiviso. Arrivavano all’eucaristia ben provvisti dei propri beni e senza prestare tempo né interesse nei confronti della scarsità e della fame dei meno abbienti. Ebbene, un peccato così grave non deve impedire la celebrazione comune. Tutt’altro, partendo da essa deve avvenire il superamento del conflitto e del peccato. L’eucaristia può essere per una comunità cristiana il momento di riconoscere che è stato tradito o trascurato il fratello. Ma se l’indegnità della comunità non la dispensa dal fare memoria e fare eucaristia, non la svincola, nemmeno, dal fratello bisognoso: a forza di ricordare la dedizione di Cristo per tutti deve venire la voglia e la forza per affrontare i bisogni del prossimo che concelebra con noi il ricordo di Gesù. La comunità di Corinto, infatti, ebbe la fortuna di avere un apostolo che sapeva distinguere quel che era in gioco in alcune liturgie in cui il ricordo di Cristo non era vincolato al ricordo del fratello assente e più bisognoso. Per giudicare la prassi della comunità le ricordò l’origine di tale pratica, la prassi di Gesù. Un apostolo che fa memoria di Cristo diventa, anche senza proporselo, una beatitudine per le proprie comunità.