La Spezia, febbraio 2022 – Proposta pastorale 2021-22 per le comunità: AMATI E CHIAMATI “Renditi umile, forte e robusto” – “Amati da sempre”, Quinta Lectio: Gal 1,13-16. 2,19-20

Contesto.

Paolo è uno dei personaggi-chiave del cristianesimo nascente. La sua grandezza e importanza si percepiscono meglio se facessimo l’ipotesi di toglierlo dalla storia. Se Paolo non ci fosse, gli scritti del NT sarebbe ridotti a metà (sui 27 scritti del NT 13 sono le lettere paoline), il Vangelo non avrebbe avuto una diffusione così rapida ed estesa, la fioritura delle comunità e il processo di inculturazione del Vangelo sarebbero stati meno fruttuosi, la riflessione teologica sulla fede avrebbe avuto dei ritardi, alla Chiesa sarebbe mancato un missionario intrepido, un santo, un maestro e pastore eccellente, un testimone singolare. Nessun altro uomo ha influito tanto nella genesi della coscienza cristiana, nessuno come lui ha aiutato la Chiesa primitiva in modo così determinante ad identificare il nucleo irrinunciabile della sua fede di fronte al giudaismo, da cui è nata, e di fronte al mondo ellenistico, in cui è cresciuta rapidamente. Le lettere di Paolo sono i documenti più antichi del cristianesimo, precedono cronologicamente i Vangeli. Una lettera è sempre la registrazione di un frammento interiore, ha un carattere intensamente personale. Le lettere di Paolo non fanno eccezione. Pur mirando a trasmettere un messaggio di fede, portano l’impronta della personalità di Paolo e rivelano il suo cuore, il suo modo di pensare, la sua passione, le sue emozioni: tristezza e gioia, paura e desideri, tenerezza e severità. L’io di Paolo si esprime costantemente, sebbene non sempre consapevolmente, nelle sue lettere. Quella ai Galati è una delle lettere in cui Paolo lascia spazio al parlare di sé, ma non a scopo autobiografico, bensì per condividere con umiltà e semplicità ciò che l’amore di Dio ha operato in lui. Il suo atteggiamento è simile a quello di Maria nel Magnificat. È il Signore che è grande e fa cose in lei, umile serva, per cui tutte le generazioni la chiameranno beata (cf Lc 1,4-49). La lettera, però, non è nata nel contesto di una serena condivisione, bensì in una situazione di crisi per i Galati e di grande dolore per l’apostolo. Dopo aver accolto bene il vangelo annunciato da Paolo, i Galati si lasciano trascinare da alcuni altri predicatori, che predicano «un altro vangelo» (Gal 1,6). Essi difendono la validità salvifica della legge ebraica (cf 4,21; 5,4) e pretendono di imporre la necessità della circoncisione ai cristiani (cf 5,2; 6,12). Per Paolo la posta in gioco è altissima, con gravi implicazioni cristologiche e ecclesiologiche. Si tratta dell’opzione radicale aut-aut - o Cristo o la legge - in opposizione alla visione sincretistica et-et, della scelta tra una salvezza aperta a tutta l’umanità e un cristianesimo ridotto ad una setta giudaica. Per giustificare che «non ce n’è un altro vangelo» (1,7) se non quello annunciato da lui, Paolo apre l’argomentazione parlando della propria esperienza: «Vi dichiaro, fratelli, che il Vangelo da me annunciato non segue un modello umano; infatti io non l’ho ricevuto da uomini, ma per rivelazione di Gesù Cristo» (1,11-12). Pur esprimendo chiaramente il suo disappunto ai Galati per l’infedeltà al vangelo di Cristo Egli non si pone come giudice, ma piuttosto come maestro e fratello.

Approfondimento.

«Voi avete certamente sentito parlare della mia condotta di un tempo nel giudaismo: perseguitavo ferocemente la Chiesa di Dio …» (1,13- 14). La descrizione minuziosa fa vedere come Paolo abbia una consapevolezza lucida e sincera del suo passato, così diverso ma così profondamente integrato nel suo presente. Lo stesso stato d’animo, equilibrato, umile, pieno di riconoscenza, egli lo rivela anche ai cristiani di Corinto (1Cor 15,9-11) e di Filippi (Fil 3,4-14). «Ma quando Dio, che mi scelse fin dal seno di mia madre …» (1,15- 17). Ecco la grande svolta! Qui arriva la lama che trafigge profondamente la sua esistenza! Si tratta dell’avvenimento capitato sulla via di Damasco raccontato da Luca con molti dettagli (At capitoli 9, 22, 26). Qui è Paolo stesso che ricorda, ma, invece di narrare il fatto, ne interpreta il significato profondo in una forma di autobiografia teologica.

La prima realtà da notare è che il soggetto di quest’azione è Dio. Due espressioni specificano l’iniziativa divina – «scelse fin dal seno matero» e «chiamò con la sua grazia» –, espressioni che riecheggiano la chiamata dei profeti nell’AT, in particolare di Geremia, a cui il Signore dice: «Prima di formarti nel grembo materno, ti ho conosciuto, prima che tu uscissi alla luce, ti ho consacrato; ti ho stabilito profeta delle nazioni» (Ger 1,5). Paolo sente la sua storia personale come una vocazione scaturita dall’amore provvidente, gratuito e tenero di Dio, che lo pone in linea con quella dei profeti di Israele.

Un secondo elemento di rilievo è quello relativo all’oggetto dell’iniziativa di Dio: «si compiacque di rivelare in me il Figlio suo». Il verbo “rivelare” (apokalypto) è tipico per indicare il disvelamento di un progetto di Dio, un irrompere del divino nell’umano. E questa rivelazione non è astratta; ha un nome e un volto: Gesù Cristo. Paolo concepisce la svolta della sua vita come un coinvolgimento nel piano di salvezza di Dio, un inserimento profondo e intimo nel mistero di Cristo. Anche in questo i sentimenti dell’apostolo sono paragonabili a quelli di Maria nel Magnificat: gioia, stupore, senso del privilegio, consapevolezza della propria indegnità, impatto meraviglioso tra la grandezza di Dio e la propria piccolezza.

Infine, dalla «scelta» e «chiamata», dalla «rivelazione» deriva la missione: «perché lo annunciassi in mezzo alle genti». Anche questa ha origine in Dio. In una parola, la vocazione e la missione di Paolo fanno parte del compimento definitivo del progetto salvifico del Padre in Cristo. «Non vivo più io, ma Cristo vive in me … vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me». Nel cap. 2 Paolo continua a raccontare i suoi spostamenti negli anni immediatamente successivi all’avvenimento di Damasco e come abbia difeso la verità del vangelo; alla fine formula questa conclusione pregnante che è anche una personale confessione di fede e di amore.

Cristo è morto «per noi» (a favore nostro) e «per amore» (spinto dall’amore): è la ferma convinzione di Paolo espressa in tutte le sue lettere. In quella ai Galati egli afferma fin dall’inizio: Cristo «ha dato se stesso per i nostri peccati» (1,4); in modo ancor più esplicito lo richiama nella lettera ai Romani: «A stento qualcuno è disposto a morire per un giusto; forse qualcuno oserebbe morire per una persona buona. Ma Dio dimostra il suo amore verso di noi nel fatto che, mentre eravamo ancora peccatori, Cristo è morto per noi» (Rm 5,8). Dio «non ha risparmiato il proprio Figlio, ma lo ha dato per tutti noi» (Rm 8,32). Ora in Gal 2,20, nel contesto della riflessione sulla propria vita, egli vede questo grande mistero d’amore non solo nella sua valenza universale, ma proprio indirizzato a lui personalmente. E ribadisce con commozione: «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me». Per amore Cristo è morto per tutti, certamente, ma particolarmente per me.

Gal 1-2 non sono le uniche pagine in cui Paolo ci regala degli sprazzi della sua vita interiore: anche in 1Cor 9; 2Cor 11; Rm 15,22-23, ma soprattutto in Fil 3 egli illustra con la propria esperienza come Gesù sia diventato ora il centro assoluto della sua vita. Dopo aver elencato le qualità naturali e culturali che lo rendono un ebreo fiero, dichiara: «Ma queste cose, che per me erano guadagni, io le ho considerate una perdita a motivo di Cristo. Anzi, ritengo che tutto sia una perdita a motivo della sublimità della conoscenza di Cristo Gesù, mio Signore. Per lui ho lasciato perdere tutte queste cose e le considero spazzatura, per guadagnare Cristo ed essere trovato in lui …» (Fil 3,7-11). E procede con una bellissima espressione: «Sono stato conquistato da Gesù Cristo» (3,12). Il verbo greco usato è kata-lambàno, che significa «afferrare dall’alto». Paolo vede il cambiamento radicale della sua vita come un intervento dall’alto a cui non può opporre resistenza. Non una violenza, ma una forte «attrazione», una nuova creazione dentro la sua storia, un cambiamento radicale del suo quadro di riferimento esistenziale. A distanza di anni dall’evento di Damasco, Paolo, ormai maturo, può valutare appieno il senso della sua storia singolare, guidata e accompagnata con sapienza dal Signore. Paolo non separa la fede dall’amore, la vocazione e la missione dalla sua persona e dalle vicende della sua vita. Per lui l’evangelizzatore e il Vangelo, il messaggero e il messaggio sono un tutt’uno, focalizzato in Cristo.

Dal testo alla vita

In 1Cor 1, 18-25 Paolo ha sviluppato con profondità di pensiero ed efficacia comunicativa la sua riflessione sulla «sapienza della croce», e la chiave interpretativa di questo grande mistero era la sapienza divina; ora in Gal 2,19-20 egli contempla nella croce soprattutto la suprema manifestazione d’amore e la vede da una prospettiva personale, vitale: «Sono stato crocifisso con Cristo», egli «mi ha amato e ha consegnato se stesso per me».

Questo ci scuote e ci provoca. Sappiamo contemplare Cristo crocifisso e cogliere il suo amore infinito? Dappertutto nei nostri ambienti troviamo questa immagine che rappresenta il centro della nostra fede: nelle chiese, nelle nostre case, sulle strade di campagna, sulle tombe nei cimiteri, ecc.; croci di diverse grandezze, di diversi stili, fatte con diverso materiale, croci ornate di pietre preziose e custodite con cura nei tesori e nei musei, croci vecchie e rovinate, messe da parte nei ripostigli o dimenticate negli armadi. Non capita anche a noi di guardare ad una croce limitandoci unicamente a giudicare se è bella o brutta, se sta bene o no nel posto in cui si trova? Non c’è forse il rischio che i tanti crocifissi facciano scomparire sotto il nostro sguardo la croce del Golgota?

Per la comunità primitiva la croce era un fatto sconvolgente, un fatto che ha scosso fino in fondo la coscienza di tutti gli amici e i nemici di Gesù. Alla predicazione di Cristo morto sulla croce gli uditori si sentivano «trafiggere il cuore» e chiedevano agli apostoli: «Che cosa dobbiamo fare, fratelli?» (At 2,37).

La croce è di per sé un «segno di contraddizione», uno «scandalo». Di fronte a un Dio che muore in modo ignominioso, un salvatore che non si salva dalla morte, un Messia glorioso divenuto oggetto di maledizione, chi può rimanere indifferente? Ora, per noi la croce ha perso questo senso acuto di scandalo. Il Crocifisso, collocato in mezzo ai fiori, ai ceri e all’incenso, attorniato da un’assemblea di fedeli in devota preghiera non sconvolge come sul Golgota, dove Gesù non stava in mezzo a due ceri, ma in mezzo a due malfattori e attorniato non da un’assemblea in preghiera, ma da una folla che lo derideva. Per noi la croce, sì, è un mistero d’amore incomprensibile, ma, tutto sommato, abbastanza pacifico. Posta al centro del disegno salvifico di Dio la consideriamo dottrinalmente sistemata. Una volta che siamo riusciti a capire qualcosa circa il perché di questo evento, denso di mistero, già tendiamo a pensarlo ovvio, logico; tutto scontato.

Anche l’attesa del terzo giorno che i discepoli avevano vissuto con trepidazione, con ansia e paura, per noi è diventata abbastanza consueta. Dopo il venerdì santo e un sabato, riempito di tante piccole occupazioni, arriva la domenica di Pasqua; è un dato sicuro per noi come dopo il tramonto arriva una nuova aurora. La croce è ancora scandalo? È ancora segno di contraddizione? Sappiamo guardare alla croce? Ci lasciamo attirare dalla croce? Ci lasciamo sconvolgere e coinvolgere? Il pericolo da cui Paolo metteva in guardia le Chiese della Galazia, cioè il pericolo di svuotare di significato la croce, il pericolo di rendere vana la morte di Gesù, è tuttora esistente.

Per pregare e condividere

- Paolo parla molto dell’amore. La parola agape nelle sue varie forme (come sostantivo, aggettivo o verbo) appare complessivamente circa 130 volte nelle 13 lettere di Paolo. Richiamiamo alcune di queste espressioni efficacissime:

«Che il Cristo abiti nei nostri cuori e così, radicati nella carità, siamo in grado di comprendere con tutti i santi quale sia l’ampiezza, la lunghezza, l’altezza e la profondità, e conoscere l’amore di Cristo che sorpassa ogni conoscenza» (Ef 3,18-19).

«L’amore di Dio è stato riversato nei nostri cuori per mezzo dello Spirito Santo che ci è stato dato» (Rm 5,5).

«Noi sappiamo che tutto concorre al bene di coloro che amano Dio, che sono stati chiamati secondo il suo disegno» (Rm 8,28).

«L’amore di Cristo ci spinge» (2Cor 5,14).

Come non ricordare i due bellissimi inni all’amore?

«Se parlassi le lingue degli uomini e degli angeli, ma non avessi la carità, …» (1Cor 13)

«Chi ci separerà dall’amore di Cristo? Forse la tribolazione, l’angoscia, la persecuzione, la fame, la nudità, il pericolo, la spada? ...» (Rm 8,35-39).

- La consapevolezza d’essere amato da Dio significa per Paolo la direzione dell’esistenza rinnovata: «vivo non più io …». Ogni uomo deve concepirsi come dono gratuito, come un’esistenza colma d’amore, che non può, di conseguenza, rimanere chiusa in se stessa, ma deve aprirsi e farsi dono gratuito per altri. Se questo non avvenisse, il movimento dell’amore gratuito di Dio verrebbe interrotto e distorto: non più dono ma possesso, non più servizio ma potere, non più apertura generosa, ma chiusura egoistica e misurata; non più visione ampia ma cuore gretto, non «vivo non più io …», ma «vivo solo per me».

- Per concludere, un aneddoto che illustra in qualche modo ciò che Paolo dice, «la carità di Cristo ci spinge», e l’ardore del da mihi animas nella spiritualità salesiana: Capitò una volta – si racconta – che Abbà Lot andasse a trovare Abbà Joseph e gli dicesse: «Abbà, per quanto posso seguo una piccola regola, pratico tutti i digiuni, prego e faccio la meditazione, mi mantengo sereno e, per ciò che mi è possibile, conservo puri i miei pensieri. Che altro devo fare?» Allora il vecchio monaco si mise in piedi, alzò le mani al cielo e le sue dita si convertirono in dieci torce di fuoco. E disse: «Perché non ti trasformi in fuoco?»