Il problema delle carni immolate agli idoli costituì indubbiamente una grave fonte di tensioni fin dai primi giorni. Oggi ci risulta difficile immaginare il pericolo che per la nascente vita in comune dei nuovi cristiani costituiva la questione degli “idolotiti”. Una gran parte della carne che si vendeva nei mercati era stata oggetto di culto nei templi pagani. La provenienza sacrificale di quella carne metteva i credenti di fronte al dilemma di accettare inviti di amici e famigliari pagani, non rinunciando alla convivenza con essi, oppure evitare una famigliarità che inevitabilmente li portava ad una emarginazione sociale. Le soluzioni che, a livello personale, si davano per questa situazione creavano tensioni, persino scandali, all’interno della comunità. L’obiezione a mangiar carne sacrificata nasceva da un diluito paganesimo idolatrico, non ancora superato da alcuni cristiani. Altri, in cambio, appoggiati sulla loro fede nell’unico Dio, seppero liberarsi da tale ripugnanza e testimoniare concretamente la libertà di fronte agli idoli che la fede cristiana concede al credente.

La libertà del credente (1Cor 8,1-3). Paolo riconosce la legittimità del comportamento dei “forti”. Il timore superstizioso di entrare in contatto con la divinità mediante qualcosa che era stata consacrata ad essa, era infondato per chi confessa come unico Dio, il Padre del nostro Signore Gesù Cristo. Curiosamente l’apostolo non nega l’esistenza di altri dei e signori. Rifiuta di concedere loro un riconoscimento ed una obbedienza che solo tocca a Dio, da cui tutto procede, ed al Signore Gesù, l’unico mediatore della creazione e della salvezza.

La fede, radice della sua libertà (1Cor 8,4-6). Questo “sapere” cristiano è alla base della libertà del credente. Sapersi originato e finalizzato in Dio Padre, creato e ricreato mediante l’intervento di un unico Signore, libera dal timore verso qualsiasi potenza superiore e dalla sottomissione a qualunque padrone che pretenda obbedienza. Tale “conoscere” cristiano rivela il mondo come creatura, e gli uomini come servi di Cristo. Non vi è potere alcuno nella creazione che possa chiedere o aspettarsi culto da parte di un credente. La dissacrazione di quanto in cielo ed in terra non è Dio ne è la conseguenza. Una forza così liberatrice dovrebbe consolarci. Chi crede in Dio Padre, origine e meta della sua esistenza, non può aver paura di nulla e di nessuno, fatta eccezione per Dio, che è il Padre che ci ha immaginato e che vuol ricrearci. Il servo del Signore Gesù, intermediario della sua esistenza e della sua rinascita, non deve obbedienza a nessun altro signore. Né il mondo né gli uomini, poteri invisibili o potenze concrete, sono degni di rispetto né meritano essere temuti. Qui risiede la forza che libera anche da dei e padroni, la cui realtà è innegabile, una forza che proviene dal riconoscersi fedeli a un solo Dio e servi di un unico Signore. Una forza così liberatrice, però, dovrebbe anche infonderci timore! Il credente non ha nessun posto al mondo né nessun potere tra gli uomini capaci di sottrarlo alla sua destinazione, che è Dio Padre, né al suo Signore, che è Cristo Gesù. Disubbidire loro si paga non con nuove servitù, ma con la perdita di un Padre e di un Salvatore. Sapere che si è conosciuti, motivo del sapere credente (1Cor 8,1-3). Ciò nonostante, non è di questa consapevolezza della propria liberazione che Paolo intende parlare qui. Se c’è qualcosa che abbonda presso i corinzi è proprio la loro capacità di discernimento spirituale ed il vissuto della loro libertà cristiana. Anche prima di dar ragione al gruppo che viveva con maggior coerenza la propria fede nell’unico Dio, ha ricordato loro un principio più fondamentale, più decisivo ancora che quello di sapere che si è liberi dagli dei: il cristiano è servo del fratello con cui condivide fede e vita. Una conoscenza di Cristo che non porti al riconoscimento del prossimo non è autentica per il cristiano. Il sapere che non costruisce comunità è superbia umana. Conoscere Dio non significa comprenderlo, ma sapere che si è compresi da Lui. Conoscerlo presuppone riconoscerlo come Dio; sentirsi grato perché ci si sente graziati. Conoscere Dio proviene non dallo sforzo intellettuale del credente, ma dall’operato sorprendente e meraviglioso dell’unico Dio, un Padre che pensò a noi prima che noi pensassimo a Lui e ci ha ‘concepito’ molto prima che fossimo concepiti. Siamo stati nel suo cuore prima che Egli fosse sulle nostre labbra. Prima di amarlo, siamo stati amati da Lui. Essendo prodotti dell’amore divino, la conoscenza cristiana del credente è un semplice riconoscimento. A volte accumuliamo concetti su Dio senza riuscire a sentirci amati da Lui! Pensiamo che è migliorata la nostra formazione perché siamo un po’ più informati. Conoscere Dio non implica sapere molte cose su di Lui, ma sapersi voluti, e bene, da Lui. Questo riconoscerci oggetto della benevolenza divina è la base cristiana del sapere e solo questa conoscenza costruisce comunità. Non dovremo meravigliarci se le nostre comunità non riescono a testimoniare in modo credibile l’amore di Dio, se non si arriva al dialogo interpersonale, se non abbiamo il coraggio di confidarci con coloro che, come noi, condividono conoscenza ed esperienza dello stesso Dio. Abbiamo nozioni d’avanzo, ma ci manca esperienza di Dio. Gli sforzi che facciamo per capire Dio e comprendere la sua logica, afferrare le sue ragioni e scoprirne la presenza, ci stanno privando del saperci amati, compresi. A forza di voler rinchiudere Dio nella nostra mente e cercare di tenerlo sulle nostre labbra, perdiamo l’occasione di sentire che siamo nel suo cuore e tra le sue mani. L’unica conoscenza cristiana che costruisce comunità, che la edifica, è sapere dell’amore che Dio ha per noi. Come sarebbe facile vivere in comune riconoscendoci tutti e ciascuno oggetto dell’amore personale di Dio!

Il fratello debole, limite della libertà cristiana (1Cor 8,7-13). Il fatto che in una comunità non tutti abbiano raggiunto lo stesso livello di maturazione cristiana obbliga i più “saggi” a prendere consapevolezza che sono responsabili nei confronti dei più “deboli”. Chi, non ancora conquistato dalla propria fede, trova scandaloso fare uso della libertà concessagli, dev’essere rispettato nella sua coscienza. La liberazione da antiche schiavitù non può convertirsi in pietra di scandalo per i più deboli. La libertà cristiana ha la sua frontiera nel fratello meno preparato a viverla. Per quante ragioni abbiamo, per tanto liberi possiamo sentirci, per quanto esperti possiamo crederci, la validità delle nostre motivazioni, la legittimità della nostra libertà, l’autenticità delle nostre conoscenze si radicano nel rispetto e nell’attenzione verso il fratello meno forte, meno libero, meno esperto. Occorre prendere sul serio l’avvertimento di Paolo quando indica i limiti della sua libertà proprio a chi riconosce che è nella verità. Può anche darsi che chi impedisce lo sviluppo di una autentica libertà, nata dalla fede in Dio e nel servizio del Signore, sia una persona non ancora matura, ancora legata al suo passato errore e ai suoi idoli. Basta, però, sapere che si tratta di un fratello che può cadere perché invidia la nostra vera libertà. Non vi è conoscenza né liberazione alcuna che possano portarci a ignorare le ragioni di chi non è giunto al nostro grado di maturazione cristiana, e che possano esonerarci dal prendere in considerazione i suoi scrupoli. La libertà cristiana non può diventare motivo di scandalo. Smette di essere fratello chi ama tanto la propria libertà da mettere in pericolo la salvezza del suo prossimo. Una liberazione che ha la sua origine nella morte di Cristo non deve condurre alla morte del cristiano. Poiché questa libertà non è stata frutto di sforzo personale, essendo stata concessa gratuitamente, può essere gratuitamente sacrificata a favore della libertà del fratello. Sentirsi libero contro o verso il fratello che è ancora schiavo dei propri pregiudizi significa attentare contro quella stessa libertà ricevuta come grazia. Meglio la rinuncia alla libertà cui abbiamo diritto, che condannare il fratello per cui Cristo è morto. La salvezza del debole può esigere la rinuncia del forte all’esercizio della legittima libertà, quella che scaturisce da una fede salda. Nella vita comunitaria e nella azione apostolica, non di rado si pecca contro il fratello, mostrandoci più forti, più saggi, più liberi! Ci atteggiamo a migliori trascurando il rispetto delle coscienze di quanti convivono con noi. Arriviamo a volte al punto di fare dello “scandalo” una tattica di urto nell’evangelizzazione. A forza di non prendere in considerazione le obiezioni del fratello, i suoi dubbi e la sua immaturità, non facendo caso alle sue paure infondate e senza comprendere la sua incapacità a sentirsi libero come noi, l’abbiamo spinto a vivere contro la sua coscienza e contro il suo Dio, schiavo dei suoi scrupoli e colpevole davanti al suo Signore. Il credente in Cristo, l’apostolo di Dio, è sempre disposto ad essere un po’ meno libero pur di essere un po’ più fraterno, disposto a non schiacciare il fratello col proprio sapere e soffocarlo nella propria libertà, se in tal modo può salvarlo dal tradire la sua coscienza e il comune Signore. Da tutto e da tutti ci ha liberati Cristo, meno dal fratello debole. La sua coscienza, anche se erronea, definisce e marca il limite della libertà cristiana. Per rispettare il fratello fragile e insicuro Dio ci ha fatti liberi.