A volte sembra che gli apostoli di Cristo non vogliano affrontare “questa materia”. L’innegabile realtà del peccato nelle nostre comunità ci toglie capacità di reazione, di risposta “apostolica”, quando non ci riempie di delusione. Quante volte l’impressione che ci la lasciato una situazione scandalosa, un peccato grave, o un caso di scontro in pubblico nella nostra comunità ci ha lasciato senza argomenti e senza speranze nel nostro apostolato! Paolo ci insegna come reagisce un apostolo dinanzi a simili situazioni, quanto matura un apostolo quando restaura la santità nella sua comunità. Prima di valutare la sua risposta conviene non dimenticare che Paolo sta prendendo posizione di fronte ad una comunità in cui la sua autorità apostolica è stata messa in dubbio. Di fronte ad una situazione in cui si sta negando praticamente la salvezza come dono concesso da Dio, l’apostolo non perde tempo a guadagnarsi la benevolenza della sua comunità, e può perdere persino la compostezza pur di difendere la grazia che Dio ha dato alla sua comunità.

Un tratto che definisce l’apostolo.

Per l’apostolo autentico l’individuazione del peccato più che infondergli scoraggiamento lo rinnova e lo conferma nella sua chiamata. Dobbiamo imparare a sentirci chiamati da Dio attraverso le necessità ed i peccati dei nostri destinatari. La distanza affettiva e reale che talora mantengono i nostri destinatari nei confronti di Dio, una lontananza intessuta di dimenticanze e di peccati concreti, dovrebbe fornirci motivi sufficienti ed entusiasmo per affrontarli nuovamente. Dovremmo rinnovare la certezza ch siamo inviati da Dio per ravvivare la consapevolezza di una salvezza perduta, per svelare lo stato di peccato in cui sono caduti. Ci manca questo coraggio apostolico che ci dia la forza per affrontare queste situazioni equivoche che emergono ogni tanto nelle nostre comunità. Né il silenzio che vorrebbe nascondere, né l’impotenza subita ci esimono dalla nostra missione apostolica. Né il rispetto delle coscienze, né il timore di non ottenere il rispetto per la nostra persona devono diventare delle scuse per tramandare la dovuta reazione a momenti migliori. La presenza del peccato nella comunità conferisce tutta l’autorità a chi si sente apostolo di Cristo e lo spinge ad agire prontamente e senza riguardi.

Una scarsa consapevolezza del proprio peccato, causa di omissione. Forse anche a noi sta mancando la consapevolezza del peccato. Vivendo noi stessi un’esistenza non del tutto consegnata a Cristo Gesù, non ci sentiamo scossi da quella disgrazia in cui ci troviamo immersi. Può darsi che la scarsa risposta apostolica che diamo alla situazione di peccato attuale sia motivata dalla nostra situazione personale di connivenza col peccato. Ci siamo tanto abituati al peccato altrui, al peccato comunitario, perché magari non siamo ancora disposti a rinunziare al nostro peccato personale. Scusiamo gli altri per non dover condannare noi stessi. La mancanza di sensibilità apostolica di fronte a tante situazioni che richiederebbero un intervento urgente, incisivo, tassativo, costituisce sicuramente il peccato più caratteristico dell’apostolo d’oggi. L’omissione di una adeguata reazione apostolica ha contribuito notevolmente ad aumentare la perdita di senso di colpa in cui vivono i nostri contemporanei. I nostri silenzi, che mettono a tacere il diritto di Dio e rinnegano la sua grazia, stanno privando i nostri destinatari della manifestazione della misericordia divina e non permettono al nostro Dio di mostrarsi com’è, «lento all’ira e ricco di misericordia» (Es 34,6).

Un cammino di ricupero apostolico. Da Paolo potremmo imparare quello zelo con cui un apostolo difende la santità della propria comunità, per quanto possa essere discusso a livello personale. Quando ci convinceremo che la santità è una grazia già concessa da Dio in Cristo Gesù, la difenderemo con maggior tenacia e con meno compromessi. Se ci sentiamo chiamati da Dio ci sentiremo anche impegnati a rappresentare i suoi diritti, ad esigere responsabilità e conversione, proprio per il rispetto che meritano Dio e la nostra comunità. Essere servi di entrambi richiede da noi di intervenire quando è in pericolo la salvezza che Dio ha apportato alla nostra comunità. Neanche i nostri peccati personali ci possono esimere dal prendere posizione come apostoli. Il peso della nostra infedeltà non ci esime dalla responsabilità che abbiamo assunto nei confronti della nostra comunità, perché lo zelo dell’apostolo trasmette l’amore ferito di Dio. E chissà, se magari noi stessi, apostoli peccatori, sperimenteremo la grazia della conversione, quando la faremo sperimentare ai nostri destinatari! Chissà se Dio non starà aspettando da noi una “reazione di apostolo” di fronte al peccato, per ricompensarci con quel perdono di cui abbiamo bisogno! Prendendo le difese del Dio offeso sarà più facile scoprire la gravità della nostra offesa. Recuperando, come compito apostolico, la lotta contro il peccato ci riprenderemo senza tanto sforzo dalla nostra infedeltà apostolica.

Un caso di scandalo pubblico.

Paolo reagisce di fronte a un comportamento che non capita nemmeno tra pagani: un tizio coabitava con la moglie del proprio padre. Eppure tra i cristiani di Corinto era pubblica e consentita tale condotta. I corinzi dovettero capire immediatamente e a Paolo non occorre precisare oltre: la situazione non era di incesto né di adulterio, si trattava di concubinato o, anche, di matrimonio, non essendo probabilmente cristiana la donna. La reazione di Paolo è così dura perché giudica gravissima l’offesa. Ma – e questo deve sorprendere – non condanna direttamente il peccatore, il suo rimprovero si dirige alla comunità, perché essa ha mancato quando non ha negato la convivenza a chi ne era indegno. Con tutta l’autorità che gli conferisce la sua coscienza di apostolo, e nonostante sia assente, Paolo dice di averlo condannato ed esige che la comunità si riunisca per eseguire la sentenza. Convocati in assemblea contano sullo spirito di Paolo e sulla forza di Cristo per consegnare a Satana il corpo dello scomunicato…, con la speranza che ritrovi la salvezza definitiva nel giorno del Signore. Nessun eufemismo né sottointesi. La comunità è doppiamente responsabile per l’apostolo. Non si è dissociata da un gravissimo peccato personale e questa è la sua colpa. Doveva negare la convivenza a colui che viveva in situazione di peccato pubblico, è quello era suo compito. Essere consegnato a Satana è il destino del peccatore, il che significa concretamente la scomunica: fuori della comunità non esiste altro che il potere del male. La comunità per Paolo confina col peccato. Per il credente che convive col peccato non c’è posto in una comunità apostolica. E infatti Paolo non chiama mai ‘fratello’ il peccatore (cfr.1Cor 5,1.2.3.5): lo scandalo, anche se tollerato dalla comunità, è un criterio che contraddice la fraternità cristiana; un malvagio non può essere considerato fratello (1Cor 5,11)!

L’apostolo, garante della santità della propria comunità. Dietro a questo modo di ragionare vi è un concetto di comunità e un concetto di apostolo che potrebbero metterci in atteggiamento di conversione. L’apostolo è il garante della santità della sua comunità, l’autorità che veglia sullo sradicamento del peccato. Un apostolo disinteressato alla vita di grazia dei propri destinatari, che sopporta non già il peccato dei suoi, ma semplicemente che convivano col peccatore, smentisce se stesso davanti alla propria comunità. I nostri destinatari hanno bisogno di apostoli che combattano la loro pigrizia, la loro inattività, la loro mancanza di definizione e il rinvio della necessaria dissociazione di fronte al peccatore che vive tra loro. Una comunità che ha un apostolo che veglia sulla sua santità, che interviene per difenderla, che usa misure estreme per ristabilirla, è una comunità che può stare sicura di avere la grazia come patrimonio e, senza ulteriori esigenze, potrà considerare tutti i suoi membri come fratelli donati. La santità vissuta e celebrata è garanzia di una fraternità amata da Dio. Un apostolo che si impone alla propria comunità quando esige la santità di tutti, crea comunità più fraterne. Vegliando sulla santità di tutti, diventa custode del fratello.

Un peccato, frontiera della comunità apostolica. La comunità dell’apostolo è quella che riconosce i propri limiti, dove scopre il peccato. Chi vive in una comunità cristiana deve non vivere in peccato e non deve sopportare una situazione peccaminosa attorno a sé. Nelle comunità apostoliche si può arrivare fin dove comincia il peccato acconsentito come normale. Per continuare ad esistere come tali, devono escludere chi si è escluso dalla salvezza comune. Dato che il peccato non appartiene alla sua natura, ma solo la grazia, la comunità dovrà escludere ogni vincolo col peccatore. Fuori della comunità rimane solo Satana; ogni comunità ha il dovere di consegnare i suoi membri peccatori, in quanto tali, al potere del Maligno, lasciandoli sulla soglia del suo dominio. Lasciandolo al giudizio diretto del Signore non abbandona il fratello caduto, ma non potrà recuperarlo perché, in quanto peccatore, non è dei suoi. La santità non è una situazione da sfruttare, ma un dono da conservare; non rientra nelle sue possibilità né rimane a sua disposizione. Il fatto che la scomunica non sia una condanna definitiva non rende meno impressionante la sua radicalità; chi non è più fratello, perché non vive la comune santità, non ha diritto alla convivenza. Comminando l’anatema, la comunità si rende consapevole di avere il potere di Cristo; la misura non nasce dalla sua iniziativa, non è essa il giudice del peccatore, dev’essere solo esecutrice della condanna; così si può salvare la persona indegna e la comunità rimanere nella sua dignità. Di entrambi gli estremi è responsabile l’apostolo.