L’apostolo scriveva per mettersi in comunicazione con le sue comunità. E scrivendo, si metteva in comunicazione col suo Dio. Pensare ai suoi lo obbligava a pensare a Dio che glieli aveva dati. E tutto questo nel modo più naturale, quasi inconsciamente. Questa reazione, percepita appena come obbligo, nasceva dalla sua consapevolezza apostolica: la prima responsabilità nei confronti della comunità è la preghiera dell’apostolo eletto. E questa risposta dev’essere data a Dio davanti alla comunità.

È difficile comprendere la povertà della vita di preghiera in cui vivono oggi gli apostoli di Dio. Ci sta diventando ogni giorno più penoso parlare con Dio, quel Dio che ha parlato con noi per parlarci dei nostri destinatari, perché è diventato penoso per noi dialogare con coloro che Dio ci ha indicato come destinatari della nostra vita. Ritornare a comunicare con essi, ritornare ai loro problemi, riprendere le loro pene e le loro attese, avvicinare il loro peccato e la loro solitudine, ci restituirà la capacità di comunicazione con Dio, il gusto della preghiera.

La comunità dell’apostolo, motivo della preghiera apostolica. Per il credente nel Dio biblico pregare significa rispondere, e per l’apostolo cristiano pregare suppone rispondere del fratello che gli è stato affidato da Dio. Perché – ed è uno degli aspetti più sorprendenti nel modo e nei contenuti della preghiera paolina – all’apostolo basta sapere che gli è stata affidata una comunità per riconoscersi oggetto della fiducia divina. Qualunque comunità cristiana può e deve essere motivo di preghiera per l’inviato di Dio, dato che è di essa che dovrà rispondere a Dio che lo ha inviato. La comunità concreta, pertanto, non può mai diventare un ostacolo per la preghiera dell’apostolo cristiano. All’apostolo non possono mai mancare motivi di preghiera, poiché potrà sempre raccontare la vita della sua comunità al suo Dio. Inoltre i nostri destinatari devono sapere che essi sono motivo, oggetto e tema della nostra preghiera di apostoli, che pensare ad essi cioè ci obbliga a pregare, che dirigerci ad essi fa sì che ci dirigiamo a Dio. Quale maggior prova di predilezione potremmo dare loro, se facciamo sì che essi si rendano conto che sono la causa e l’argomento della nostra conversazione con Dio! Come non si sentiranno accettati e stimati da noi, se si accorgeranno di essere oggetto del nostro dialogo personale con Dio! Sarà loro molto più facile confidarsi con noi, quando sapranno che li abbiamo affidati a Dio. Ai nostri destinatari mancano apostoli oranti, che parlino loro del Dio col quale hanno, prima e a lungo, parlato. Solo gli oranti possono essere testimoni credibili. Stiamo allontanando Dio dal nostro mondo perché non lo ascoltiamo. Ritornare alla conversazione ci restituirà la convivenza con Dio. E quando ritorneremo alle nostre comunità, ci ritornerà la preghiera, senza sforzi e con gioia, naturalmente.

Pregare, attività prioritaria dell’apostolo. Pregare è la prima cosa che fa Paolo, quando scrive. La preghiera è prioritaria nella vita dell’apostolo, non perché sia la cosa più importante da fare, ma perché è quel che fa per primo e spontaneamente. Emerge qui un criterio di verifica per la nostra attività quotidiana, che sarà apostolica se la nostra convivenza coi nostri motiva la nostra preghiera e se la nostra comunicazione con Dio ha i nostri come tema. La missione a cui si obbedisce non può diventare una scusa per evitare la preghiera personale. Le nostre comunità oggi hanno diritto alla nostra preghiera. Stiamo rendendo più ateo questo nostro mondo, stiamo contribuendo a questo agnosticismo sottile che ci pervade, non perché abbiamo tralasciato di parlare di Dio, ma perché non sappiamo più parlare con Lui. I testimoni del Risorto stanno diventando tristi becchini, alla ricerca di cadaveri gloriosi. La nostra gente potrà scoprire quanto sia facile credere in Dio dalla facilità con cui, davanti ad essi, parliamo con Lui di loro.

Il rendimento di grazie, preghiera propria dell’apostolo. Apostoli che pregano, quando pensano ai loro destinatari, sanno essere grati al loro Dio. La capacità di “fare eucaristia” è una caratteristica dell’apostolo di Cristo. In fondo, il non sapere, o non volere ringraziare Dio per il dono che ci ha concesso, ossia la chiamata di base ed una comunità da edificare, sta a indicare il nostro misconoscere Dio. Ritornare al rendimento di grazie significa ricuperare la capacità di ammirare Dio e la nostra comunità. Sentirsi riconosciuti ci riempirà di quell’apprezzamento delle nostre cose, della nostra chiamata e della nostra comunità, che ci sta mancando. Riconoscendo il dono ricevuto, supereremo tutti i nostri complessi ed oseremo maggiormente nel continuare in questa “eucaristia” apostolica.

  • Un motivo per vivere riconoscenti. Non c’è bisogno di aspettare di avere ottimi motivi per diventare apostoli riconoscenti. Non occorre aspettare che le nostre comunità siano perfette, che la nostra vocazione ci abbia dato tutto quel che attendevamo da essa. Nessuno dei doni ricevuti sono stati chiesti da noi né meritati. Non sono fatti su misura per noi né destinati a soddisfare le nostre necessità. Diviene un cattivo inviato, infatti, colui che non si riconosce oggetto della grazia del mandato di invio; sarà una cattiva eucaristia quella di chi non riconosce nella propria comunità la grazia che Dio gli ha fatto. Fare eucaristia diventa logico solo per chi scopre i doni che Dio gli ha fatto e vive riconoscendoli. Mancano oggi apostoli testimoni della gratuità che un giorno hanno sperimentato con sorpresa. Non abbiamo diritto, noi scelti da Dio, di negargli giorno per giorno la nostra riconoscenza per il suo dono: i nostri destinatari hanno diritto di sapere che siamo riconoscenti a Dio perché ce li ha affidati come incarico alla nostra esistenza credente. Chiaro, la preghiera di ringraziamento sgorga da una profonda vita di fede. L’eucaristia apostolica, quel rendimento di grazie che sgorga dalla contemplazione, dal ricordo e dal dialogo con la comunità, non è una semplice formula per captare la benevolenza dei destinatari. Paolo non ha avuto bisogno di una comunità esemplare per ringraziare Dio, mai. Gli è bastata quella che Dio gli aveva affidato per trovare le ragioni della sua eucaristia. L’apostolo cristiano è ministro dell’eucaristia non perché la celebra sacramentalmente, ma se la vive normalmente. Dobbiamo ritornare alla nostra comunità per fare di essa non solo l’ambiente del nostro lavoro apostolico, ma anche, e soprattutto, il tema della nostra contemplazione, e lo sarà se diventa contenuto principale della nostra preghiera.
  • L’urgente conversione alla gratitudine. Bisognerebbe rendersi conto quanto esagera Paolo nella sua preghiera di ringraziamento: i Corinzi sovrabbondano di grazie, sanno esprimersi e comprendere il mistero, nulla sembra mancar loro e non hanno nulla da desiderare. Un linguaggio simile, per iperbolico che possa sembrare, è sincero in Paolo: il dono di Dio, per il solo fatto che è suo, deve eccedere le possibilità umane, superare ogni misura ed ogni limite. Apostoli come Paolo, che vedono nella comunità divisa e problematica la ricchezza del dono divino, devono per forza essere instancabili. L’apostolo che prega quando pensa ai suoi fa di essi l’oggetto della sua contemplazione di Dio, si sente compagno del Dio che opera meraviglie e si libera dalla tentazione dello scoraggiamento. Perché ci costa tanto riconoscere che il nostro operato è operato di Dio, che il nostro sforzo impegna anche il nostro Dio, che i nostri scoraggiamenti insidiano il progetto di Dio? Perché lodiamo poco Dio per le comunità a noi affidate.

La consolazione, frutto della riconoscenza. E pensare che sarebbe così facile ricuperare l’antica emozione della chiamata che abbiamo sentito un giorno! Basterebbe riconoscere che le grazie che Dio pensa di dare, che già sta dando, passano attraverso la nostra mediazione. Non è che siamo migliori, semplicemente siamo quelli che Dio ha scelto a questo scopo. Non possiamo vivere senza speranza, se riconosciamo che stiamo aiutando il nostro Dio ad essere il Dio dei nostri. Il nostro Dio è fedele a se stesso. Solo chi è grato lo sa. E se un giorno ci ha dato la sua parola e ci ha affidato la comunità cristiana come missione, non ci abbandonerà alla nostra sorte, nemmeno nel giorno del Signore. Ma per acquistare questa sicurezza, anche contro l’evidenza che rappresentiamo noi stessi, le nostre disfatte, occorre vivere facendo eucaristia, riconoscendo quotidianamente i motivi che abbiamo per ringraziare Dio e sapendoli scoprire soprattutto nella comunità che ci ha consegnato. La fiducia che Dio ha depositato in noi non ci può portare alla frustrazione; se Dio ha avuto fiducia in noi chi potrà diffidare di noi? Ritorniamo all’audacia di ringraziare il Signore, anche se non abbiamo altro motivo se non la nostra evidente povertà spirituale e quella delle nostre comunità. L’invio apostolico e la comunità sono due grazie, due ragioni per vivere riconoscenti, per sentirci fortunati. Il Dio che ha avuto fiducia in noi merita la nostra fiducia.