Tra tutte le buone notizie che possono raggiungere il nostro cuore oggi ci viene annunciata la buona notizia per eccellenza, riassunta mirabilmente dal prologo del Vangelo di Giovanni: «E il Verbo si fece carne e venne ad abitare in mezzo a noi; e noi abbiamo contemplato la sua gloria, gloria come del Figlio unigenito che viene dal Padre, pieno di grazia e di verità» (Gv 1,14).

Il profeta Isaia ci mette dinanzi l’immagine di un sovrano cosmico che ha «snudato il suo braccio davanti a tutte le nazioni» (Is 52,10). L’evangelista Giovanni ci aiuta a entrare nel mistero dell’incarnazione del Verbo che rivela quel volto mite e misericordioso del Padre che ci permette di passare dalla paura alla fiducia: «Perchè la Legge fu data per mezzo di Mosè, la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo» (Gv 1,16).

Nella carne fragile e luminosa del bimbo nato a Betlemme rifulge «in questi giorni» (Eb 1,2) la buona notizia di un Dio che si fa come noi, per aprirci la strada per diventare come lui in una rinnovata capacità di amare e di sperare.

L’inizio della Lettera agli Ebrei può essere inteso come una lunga meditazione sul mistero dell’incarnazione di Cristo. Come introduzione al Prologo di Giovanni il testo risuona in modo ancora più forte e appropriato. L’avvento di Cristo nella nostra carne è il coronamento ideale e sperato della creazione come pure di tutta la storia. Con gli «angeli di Dio» e i poveri della terra non ci resta che ammirare e adorare.

Sostando davanti al presepio non possiamo accontentaci di commuoverci, siamo chiamati a convertire radicalmente il nostro modo di pensare a Dio e di pensare noi stessi. Il bambino che giace nella mangiatoia squarcia per noi i cieli e ci da la possibilità di guardare dentro al mistero di Dio in modo completamente nuovo perchè proprio il piccolo per il quale non c’era posto «è irradiazione della sua gloria e impronta della sua sostanza, e tutto sostiene con la sua parola potente» (Eb 1,5). Possiamo ben chiederci quanto «potente» possa essere la parola di un bambino che non può essere altro che il suo vagito. Eppure, proprio nella piccolezza risuona la buona notizia, il Vangelo eterno che tutto può ricominciare proprio dall'accoglienza della fragilità che chiede sempre di essere riconosciuta e amorevolmente accolta.

ll prologo del quarto Vangelo ci fa meditare il mistero dell’incarnazione «dall'alto». Con un riferimento preciso all’inizio stesso delle Scritture ebraiche siamo portati al «principio» (Gv 1,1) per scoprire il fine ultimo della stessa creazione: la rivelazione di Dio nel volto e nei tratti del Signore Gesù.

Tutto questo non solo mette in moto gioiosi processi di vita, ma scatena pure tutte le resistenze e le paure davanti alle esigenze di una vita nella «luce» (1,10). La Parola non si fa teoria, ma si fa «carne» (1,14) e vita ed esige non una semplice reazione, ma una scelta di campo.

Il Natale del Signore non è certo una festa di luminarie, ma di luce che illumina e smaschera tutte le nostre tenebre quando ci richiudiamo nelle cantine del nostro egoismo e nelle tane del nostro autoriferimento narcisistico.

La luce che oggi risplende sul volto silente e sorridente del piccino che Maria stringe tra le braccia ci spinge a uscire incontro al mistero dell’altro per adorarlo, per amarlo, per incoraggiarlo a trovarsi bene tra noi per farci del bene con la sua presenza discreta prima ancora che renderci migliori con la sua parola. A noi di scegliere se vogliamo imitare i pastori che si mettono in cammino nella notte e i Magi che non temono di affrontare un lungo viaggio, oppure starcene comodi come Erode e molti altri per cui nulla avviene proprio mentre accade evento che fa la novità e la differenza della storia: «Dio che molte volte e in diversi modi nei tempi antichi aveva parlato ai padri per mezzo dei profeti, ultimamente, in questi giorni, ha parlato a noi per mezzo del Figlio» (Eb 1, 1-2).

Gli angeli del Signore non trovano nessuno in città che sia disposto ad ascoltare il loro messaggio! Tutti sembrano distratti dal «censimento» (Lc 2,1) che ha riversato la gente sulle strade per andare a ritrovare ognuno la «propria città». Proprio mentre tutti sono intenti a «farsi censire» (2,5) il «Verbo si fece carne» (Gv 1,14). Il Verbo eterno del Padre accetta di farsi «contare» tra gli umani. La prima grande esperienza che il Verbo incarnato fa e quella di non essere gradito: «perchè per loro non cera posto nell’alloggio» (Lc 2,8). Giovanni, nel Prologo del suo Vangelo, è ancora più forte: «Venne fra i suoi, e i suoi non l’hanno accolto» (Gv 1,11). Un bambino è il segno in cui Dio si presenta all’umanità e un bambino è un essere che pone sempre l’adulto davanti a una scelta radicale perchè o viene accolto o muore e, soprattutto, non può fare nulla – assolutamente nulla – per farsi accogliere, per farsi valere: ogni piccolo è un appello alla cura degli altri. Questo grido esige una risposta, ma il piccolo non può pretenderla mettendo così l’altro davanti alla propria libertà, alla sua nuda umanità.

Il Natale del Signore è anche per noi un invito a metterci in cammino nella notte per poter vedere ciò che ci è stato dato di udire e proclamare con il profeta: «Regna il tuo Dio» (Is 52,7).

Questo grido davanti alla grotta di Betlemme perde i suoi toni di potenza soverchiante e si riveste della debole dolce forza dell’amore cui ogni bambino richiama con la sua vulnerabilità. Il bambino che oggi contempliamo è «Il Verbo fatto carne» (Gv 1,14) perchè la nostra carne, la nostra storia, il nostro oggi possa diventare la mangiatoia in cui Gesù riposa. Non solo riposa, ma pure illumina con la sua dolce presenza i nostri modi umani di relazionarci tra noi animando così la speranza che il nostro mondo possa essere ancora più bello.

Ecco la buona notizia del giorno: mettersi accanto a Dio come ci si mette accanto a un bambino appena nato ci permette di non avere nulla da temere e tutto da sperare.

Fratel MichaelDavide Semeraro – Dalla rivista: “La vita in Cristo e nella Chiesa” 10-2018