Il mio lavoro diventa quello di aiutare educatori e insegnanti a guardare e ragionare sulla configurazione degli spazi educativi quotidiani: dimensione degli angoli, degli oggetti, forme, colori, orientamenti, posizioni. Linee, superfici, giochi di luce. E poi far riflettere sugli sguardi ai quali educhiamo i bambini e le bambine, per esempio nelle uscite didattiche. Si tratta di non limitarsi ad attenzioni relazionali o comunicative, ma di mostrare percorsi di sguardi possibili, alla ricerca di forme che si intrecciano, accostamenti di colori, elementi naturali ed elementi costruiti dall’uomo che si alternano, diversità tra elementi naturali... Osservazione e contemplazione della bellezza e delle differenze. Nei luoghi educativi il compito principale dovrebbe essere quello di allargare e intensificare i modi di guardare e abitare la vita, in senso ampio.

Ma più cresciamo e più la nostra vista, e con essa il nostro sguardo sul mondo, sono condizionati dalle esperienze che facciamo. La pedagogia può allora aprire domande sui processi di formazione di uno sguardo. Spostiamoci alle basi della nostra quotidianità: un preciso lavoro, i percorsi a piedi o coi mezzi di trasporto, le letture, le abitudini, i panorami abituali, le persone che incontriamo e i discorsi nei quali siamo più immersi ci allenano continuamente a precisi modi di vedere, e di pensare. E anche a un certo senso estetico e a un gusto, o meno, della vita.

Che tipo di esperienza siamo soliti far fare alla nostra vista? C’è, nei nostri giorni, un equilibrio tra l’esperienza del guardare vicino e lontano? Del guardare in basso e in alto? Del guardare in profondità? I movimenti della vista non sono mai pura questione meccanica. Hanno ripercussioni sul modo di essere al mondo.

Le situazioni che viviamo ci educano poi a focalizzarci su alcuni precisi aspetti della realtà, di noi stessi e di ciò che incontriamo. Dove tende a fermarsi la nostra attenzione quando guardiamo, e quali aspetti vengono lasciati ai margini?

In occasione di alcuni incontri di formazione con insegnanti, cercavo di riflettere insieme con loro sull’uso sempre più diffuso e invasivo dei cellulari. L’intento non era quello di demonizzarne l’uso, il che sarebbe oltretutto ingiusto, visto che aspetti positivi e usi creativi non mancano. L’uso continuo del telefonino, però, rappresenta un continuo vedere da vicino, verso il basso, con la tendenza a escludere dalla vista chi è prossimo (anche solo il vicino di posto su un mezzo di trasporto). Tende a disabituare all’osservazione diretta, al soffermarsi con attenzione sulle cose, e a volte alla contemplazione di personaggi e scenari. L’uso prolungato ha inoltre e spesso il potere di fagocitare altre sensibilità. Penso alla difficoltà di restare in ascolto di tutti i suoni e rumori del paesaggio sonoro. Questo esempio porta anche a chiedersi: quanto, nella nostra conoscenza del mondo, delle persone, riusciamo a mettere in dialogo i nostri sensi, senza privilegiare e assolutizzare il senso della vista (così sollecitato anche dai media), per avere una visione più comprensiva e complessa dell’umano? «L’ascolto avvicina lo sguardo alle cose» dice efficacemente Tullia Gianoncelli, antropologa. È quanto io stessa ho vissuto nell’ascolto di tanti ragazzi e ragazze. La possibilità di farsi vicini alle situazioni e alle persone sta proprio in un guardare, in una capacità di osservare con attenzione i dettagli, le espressioni, i gesti, mettendoli però sempre in rapporto coi racconti, le parole e i significati dei protagonisti delle storie, senza alcuna pretesa di dominare i significati altrui, e con la capacità di sentire l’altro.

Nel nostro mondo, così pieno di armi di distrazione di massa, quello che vediamo, nella nostra quotidianità, quali sentimenti e quali emozioni ci fa provare più spesso? A quali sentimenti ed emozioni ci educa con maggiore forza? Quello che vediamo cosa tende a evocare, a farci ricordare delle nostre storie o esperienze di vita? Mettere in relazione ciò che vediamo con le emozioni suscitate permette di non lasciare semplicemente passare la vita, ma di assaporarla, di fermare nel tempo ciò che si sente.

C’è infine qualcos’altro che forma con prepotenza uno sguardo: i nostri saperi di riferimento. Ci sono saperi famigliari, che derivano da esperienze, e poi ci sono i saperi disciplinari, ovvero le teorie che più assiduamente frequentiamo. Questi saperi disciplinano ciò che “dobbiamo” vedere, ciò a cui “dobbiamo” la nostra priorità, e anche quello che “possiamo” lasciare sullo sfondo, o non vedere. Per far capire meglio cosa intendo, vorrei riportare un fatto accaduto nel mio lavoro in una scuola. Qualche tempo fa ho ricevuto degli insegnanti, peraltro tra i più sensibili, preoccupati perché un ragazzo continuava ad addormentarsi in classe, e del fatto che – nonostante i suoi voti fossero buoni – questo doveva derivare da un problema, probabilmente neurologico o psicologico, di una certa gravità. D’accordo con la preside, ho immediatamente convocato il ragazzo, peraltro particolare e simpatico, e gli ho chiesto con semplicità come mai fosse così stanco a scuola. E lui mi ha altrettanto semplicemente spiegato che aveva un grande sogno sportivo e che in quel periodo si stava allenando in modo particolarmente duro per riuscire a realizzarlo. Agli insegnanti non era venuto in mente di chiedergli perché fosse così stanco!

Nessuno può mettere in dubbio la preziosità di tanti studi. Tuttavia, nel mio lavoro mi ritrovo sempre più spesso a dover mettere in connessione l’umanità dei singoli insegnanti con l’umanità dei ragazzi. Non ho timore di confessare che spesso, più di alcune teorie, nell’ascolto di tanti ragazzi e ragazze, e anche di tanti bambini e bambine, mi sono fatta guidare da queste parole di fratel Roger di Taizé: «È essenziale cercare di capire l’insieme di una persona, grazie ad alcune parole o qualche atteggiamento, piuttosto che con lunghe spiegazioni. Non basta condividere ciò che fa violenza nell’intimo di un essere. Occorre ancora ricercare il dono specifico di Dio in lui, perno di tutta la sua esistenza. Una volta messo in piena luce questo dono, o questi doni, si aprono delle strade». Partire dai doni: attitudini, passioni, talenti. Persino per aiutare laddove vi sia una difficoltà. Aprire lo sguardo, anziché chiuderlo, e aprire così la speranza.

Quando ci accorgiamo che il nostro modo di vedere si sta cristallizzando o tende a fermarsi sempre sulle stesse cose, quando ripetiamo sempre le stesse parole per descrivere le situazioni e non riusciamo a uscire dai soliti schemi, non c’è antidoto migliore che leggere o studiare il vangelo, ma ponendogli domande estremamente concrete. La pedagogia aiuta a vigilare sulle strutture che condizionano, o determinano, l’esperienza, ma il vangelo non lascia scampo sul non perdere di vista le radici della nostra umanità, e sul baricentro da tenere presente in ogni azione umana: un rapporto vero con se stessi e con il mondo. Nel vangelo troviamo scritto: «Perché guardi la pagliuzza che è nell’occhio del tuo fratello, e non ti accorgi della trave che è nel tuo occhio? (...) Togli prima la trave dal tuo occhio e allora ci vedrai bene per togliere la pagliuzza dall’occhio del tuo fratello». C’è da chiedersi se questa trave non sia (come a volte si interpreta) un male più grande commesso da noi rispetto all’altro, ma tutto ciò che ci impedisce di vedere l’altro per intero, nella sua intera umanità: le insensibilità di visione alle quali lentamente veniamo formati; le nostre paure; i pregiudizi su ciò che è giusto e sbagliato; alcune idee sull’altro che cerchiamo più di confermare che di sfatare; e persino i saperi alla “luce” dei quali siamo così pronti a pensare di aver capito l’altro... Una trave, insomma, che non è mai tolta una volta per tutte, che cambia forma a seconda dei momenti della vita, e che richiede dunque una vigilanza continuamente rinnovata. Ma la buona notizia è che ogni trave, nel momento in cui le prestiamo attenzione, si può rimuovere. E ci è sempre dato di poter riguardare il mondo, gli altri e noi stessi, con maggiore libertà.

Da http://www.osservatoreromano.va/it/news/sguardo-libero