L’estensione della risposta dell’apostolo, un vero e proprio trattato sui carismi (12-14), è una prova della ricchezza spirituale che caratterizzava la vita cristiana di quella comunità (1,5; 4,8) e, allo stesso tempo, un’avvertenza di fronte ai rischi di uno spiritualismo troppo individualista. Occorre, quindi, prendere sul serio l’origine spirituale della problematica comunitaria, se si vogliono capire le soluzioni che Paolo propone ed evitare lo scandalo - o la sorpresa - di vivere in modo conflittuale una vita sgorgata dallo Spirito. Paolo teme che a Corinto si stiano perseguendo come valore massimo della vita cristiana dei cammini che, pur essendo spirituali, non sono i migliori, siano fenomeni estatici, come il parlare in lingue, o la conoscenza profonda delle realtà della fede. A coloro che aspirano al meglio che Dio possa loro dare, l’apostolo insegna un altro cammino: l’amore (12,31b-13,13). E per parlare dell’amore, Paolo diventa poeta. L’elogio dell’amore, che ora introduce, non senza una certa violenza, nella sua discussione sui carismi (12,31a; 14,1), non va preso come vero poema; ma va resa evidente la sua attenta composizione, principalmente a base di ripetizioni e parallelismi. Più che una contemplazione lirica dell’amore cristiano, il capitolo si presenta come una meditazione sapienziale. Esaltando l’amore, la via massima, rimpicciolisce tutto quel che l’uomo religioso poteva considerare grande e critica velatamente il comportamento corinzio, avido di fenomeni più spettacolari. Come Paolo, l’apostolo oggi dovrebbe inventare un nuovo modo di dire il vangelo, la cui espressione, orale o letteraria, rifletta la bontà dell’annuncio. La nostra convinzione che stiamo dando il meglio che Dio ha pensato per loro dovrebbe renderci immaginativi ricreando e ricreandoci in esso, che è la forma più adeguata per dirlo senza contraddirsi, senza togliere valore di convinzione al messaggio a forza di venderlo come se non fossimo stati soggiogati da esso. Il nostro sforzo per fare della nostra predicazione qualcosa di bello, più presentabile, meno monotono, riflette la nostra gratitudine a Dio per la missione affidataci ed il rispetto dovuto ai nostri ascoltatori. Anche nel caso di doverli smentire, come Paolo, potremmo ricorrere ad un linguaggio più attento. Dire il vangelo in un modo qualunque ci smaschera come dei testimoni senza autorità, cioè senza convinzione.

La supremazia dell’amore (1Cor 13,1-3). La prima strofa (13,1-3) è costruita con notevole simmetria: cinque situazioni ipotetiche, raccolte sotto la negazione tre volte ripetuta dell’amore come caratteristica comune, si chiudono successivamente con l’affermazione dell’inutilità dei casi presupposti. Se ci si accorge che essi presentano i doni più desiderati (13,1), i carismi obiettivamente più preziosi (13,2) e persino le azioni più significative del credente cristiano (13,3), risulta ancor più fortemente evidenziata la supremazia dell’amore. In rumori senza senso e senza capacità di entusiasmare consisterebbe il dono delle lingue con la sua eloquenza ammirabile e la sua ineffabile profondità. Non è nulla chi è solo un credente sapiente, conoscitore del mistero e protagonista del miracolo. Non serve a nulla dare quanto si possiede e dare se stessi come testimonianza di fedeltà estrema, senza amore. A quest’ultimo si inneggia così come il limite e la verifica di tutte le possibilità del cristiano. Con esso qualunque dono è prezioso e senza di esso viene invalidata anche la più grande grazia divina. Bisogna notare che i casi presupposti non sono a portata umana, ma doni dello Spirito: l’amore ne è la definizione, presenta la garanzia di autenticità cristiana. Tutto il resto si può dare per scontato, meno l’amore. Qualsiasi atto di eroismo immaginabile, o desiderabile, in un cristiano, qualunque dono spirituale sognato o anelato acquista consistenza, se vi è l’amore. La perfezione cristiana, una perfezione donata – non dobbiamo dimenticarlo – è tale se vi è amore ricevuto. Altrimenti tutto si riduce al nulla, rumore senza consistenza, chiasso senza senso. Paolo presenta l’amore come crogiolo e prova di supposte grazie e di eroismi ideali. Il massimo cui si può giungere nella vita cristiana si rivela inesistente, tutt’al più apparenza inefficace, senza l’amore. Il minimo, invece, che avviene con amore, si conferma come dono e grazia. Quanto più una persona aspira a doni divini o ha la nostalgia di una grazia perduta o ancora non scoperta, quanto più prende per buoni dei carismi dubbi, tanto più dovrebbe ambire l’amore, scoprirlo, rallegrarsi per l’amore che Dio ha per noi ed imparare a sentire gratitudine. Solo così diverrebbero realtà le nostre virtù immaginate e così ci si aprirebbero gli occhi per riconoscere negli altri i doni reali che Dio ha loro concesso a nostro vantaggio. Essere consapevoli di questa illimitata possibilità ci riempirebbe di attenzioni nei riguardi del nostro prossimo che, con i suoi doni riscoperti, perché amato, ci avvicina al Dio Amore.

L’efficacia dell’amore (1Cor 13,4-7).La seconda strofa (13,4-7) descrive l’amore divenuto ora protagonista unico. Quindici brevi frasi dettagliano il comportamento dell’amore personalizzato, con leggero predominio della negazione come elemento di definizione. Le due prime affermazioni in positivo (13,14a) saranno riprese e universalizzate alla fine della serie (13,6b-7). L’amore viene presentato come principio attivo per antonomasia; non si parla del credente amante né si riduce l’amore a semplice sentimento improduttivo, intransitivo. L’amore che Paolo canta si definisce in base alla sua presenza efficace, la sua capacità di creare realtà tangibili nella comunità. Non si lascia ridurre, quindi, a un sentirsi a proprio agio con se stesso e/o con gli altri; un operato constatabile lo caratterizza, tanto in positivo come in negativo. Magnanimità e bontà, attributi divini per eccellenza, (Rm 2,4; 9,22; Mt 18,23-35) sono frutto dell’amore attivo che Paolo conosce. In cambio, la vita della comunità in cui si accumula l’inoperosità dei più “spirituali”, è riflesso dell’“anti-amore”: le gelosie, l’arroganza, l’orgoglio, la scortesia, l’interesse egoistico, il malumore, il pensar male, la maldicenza e la compiacenza nell’ingiustizia negano l’esistenza dell’amore. Per quanto eccelsa possa essere la conoscenza spirituale raggiunta, per quanto possa essere certa l’origine spirituale della propria situazione spirituale, non possono produrre tali effetti senza smentirsi. L’amore non solo esclude per definizione simili comportamenti anti-comunitari, ma innanzitutto scommette sul fratello più debole: non perde la capacità di concedergli fiducia e fedeltà, non si lascia tentare dalla delusione né dall’impazienza. È questa totalità del suo agire positivo quello che meglio contraddistingue la sua natura e quel che rende più divino tale amore, meno alla portata di qualsiasi sforzo (umano); un amore di questa fatta è più oggetto di contemplazione e dono sospirato che meta di conquista o ingenua fiducia nella bontà naturale. È un modo nuovo di essere, una capacità di agire innovativa, una possibilità ricreativa che acquista colui che si sottomette alla signoria di Cristo e si ispira alla sua auto-dedizione (Rm 5,8; 8,31-32). Un amore così ‘divino’ non può esistere senza la croce ed a partire da essa. Solamente crocifisso trionfa l’amore cristiano.

La prevalenza dell’amore (1Cor 13,8-13). Anche se la terza strofa (13,8-13) perde un po’ nel ritmo e nella solennità, non abbandona del tutto la formulazione poetica. Nei confronti dei doni dello Spirito la supremazia dell’amore si afferma a causa della sua sopravvivenza. Le due similitudini che caratterizzano questa sezione (13,11-12a), abbassando il livello poetico, sono lì a sottolineare la preminenza dell’amore: solo un amore che dura, imperituro, è un amore che vale. In contrapposizione all’amore che non viene meno (13,8a-13) si enumerano i doni che sono destinati a scomparire. Solo l’amore appartiene già all’esistenza salvata, al modo di vita che non si può perdere, solo esso è modo e segno distintivo della vita futura. L’amore è già la realtà futura che ci sarà concessa. Se non manca, svanisce ogni motivo di scoraggiamento; è già fin d’ora forza e profezia di quanto avverrà. Il resto, lingue, profezie o conoscenza, è il meno. Nella nostra vita spirituale e nella missione apostolica, se sentiamo la mancanza di doni e di carismi – il che significherebbe un alto grado di debolezza nella nostra vita di fede – frequentemente perdiamo il tempo anelando grazie periture, doni che sono destinati a scomparire. Misuriamo quello che riceviamo, apprezziamo i doni di Dio, in base alla loro efficacia immediata, per il servizio che ci prestano sul momento. Vogliamo una fede che faccia portenti, dato che ci libererebbe più facilmente dalla tutela continua di Dio. Usiamo in questo modo il dono per svincolarci dal Donante. La nostra parzialità, la nostra imperfezione cesserebbe se ci dedicassimo a vivere di ciò che è definitivo. L’amore ci salva da ogni imperfezione per quanto possano mancarci tante cose. Ci salva dalla nostra ignoranza, pur mancando di conoscenza. Ci salva dalla nostra immaturità spirituale, non essendo ancora adulti. Il nostro infantilismo, spirituale e apostolico, ha la sua radice nel fatto che valorizziamo e desideriamo ciò che, pur venendo da Dio, è destinato a perire. Avendo amore, abbiamo il futuro di Dio, meglio: abbiamo il Dio che sta per venire. Potremmo vivere fin d’adesso la sorpresa che Dio ci prepara, presentire la meraviglia che durerà tutta l’eternità, se ci decidessimo ad apprezzare, desiderare, sentire la mancanza – questo modo di vivere di quel che ancora non si possiede, di anticipare la compagnia di quanto ancora si attende! – dell’amore che non perisce. Tutte le possibilità umane, proprio quelle che venendo da Dio sono le più eccelse e sicure, sono provvista per il cammino, passaggio nella via che porta all’amore. Chi si sforza di averlo e di mantenerlo può fare a meno di tanto bagaglio inutile. Chi è arrivato a destinazione non ha bisogno di viatico. L’amore è la maturità del credente, essendo il suo stato finale (13,11-12). È la conoscenza diretta, personale, senza enigmi né mediazioni (13,13a). Attualmente la conoscenza di Dio è riflessa, a base di immagini, necessariamente deformata ed esterna; è la conoscenza dell’estraneo. La conoscenza che ci è promessa, invece, è il sapere proprio dell’amico, avviene “faccia a faccia” (cf. Nm 12,8.12): sa di essere conosciuto e si sorprende guardato e accolto. Scoprire di essere scoperto da un Altro, constatare che si è compresi prima ancora di fare sforzi per comprendere, accettare che si è nel cuore di Dio senza rendersi bene conto di come si è giunti ad entrare in esso, ecco la perfezione della conoscenza di Dio! Tutto è parziale, imperfetto, oscuro, deforme, enigmatico nella nostra conoscenza di Dio, finché non ci sentiamo oggetto della Sua comprensione. Chi sa di essere conosciuto da Dio vive pieno di riconoscenza; anticipa al presente la sorpresa che gli è riservata per l’eternità; vive sperimentando ciò che è definitivo colui che si sente ascoltato, compreso, protetto, amato da Dio in persona. Questa consapevolezza di sapersi amato rende piccola qualsiasi carenza e fa dimenticare ogni dono non ricevuto, poiché anticipa il “vedere Dio faccia a faccia”, il sapersi amato da Lui, un ‘sapere’ da amici. L’ultima affermazione dell’apostolo (13,13) presenta delle difficoltà. Ci si aspetterebbe che riaffermasse il perdurare dell’amore indefettibile (13,8a). Invece aggiunge la triade “fede-speranza-amore” (1Ts 1,3; 5,8; Col 1,4-5) che sembra corrispondere all’atteggiamento fondamentale cristiano nel momento presente, quando la fede non è ancora contemplazione (2Cor 5,7) e speranza si oppone a visione (Rm 8,24), tipiche ambedue della situazione futura. Paolo, criticando la situazione corinzia, sottolinea adesso il valore permanente della fede, speranza e amore, senza nascondere la prevalenza dell’amore. Rispetto alla scienza tanto desiderata, alla invidiata profezia, alla capacità di parlare in lingue, fede, speranza ed amore hanno il vantaggio di perdurare, dato che mettono il cristiano a disposizione di Dio. Riconoscendosi fondato in Dio, il credente si sente necessariamente fiducioso, sicuro di avere scommesso sulla posta migliore; aspettando colui che deve venire non se ne sente la mancanza ma lo si ha già nel cuore. La presenza del Dio amante, riconosciuta dall’amore sentito, rende imperitura la fede e permanente la speranza. È questa la supremazia: credere e sperare diventano più facili quando si ama colui che si attende ed in cui si confida. L’amore è possibile se riusciamo a renderci conto dell’amore di preferenza che ha avuto Dio per noi; non possiamo perdere quel che non abbiamo meritato. L’amore che Paolo esalta è un amore che non è sentimento né possibilità umana, ma passione incomprensibile di Dio; un amore che non si riflette in emozioni individualiste, ma che agisce nella costruzione della comunità. L’amore di Dio non è virtù da ammirare né valore da perseguire, non rientra nel novero delle mete da raggiungere. Lo si potrà anelare e desiderare. Bisognerà dedicarsi a scoprirlo già presente, immancabilmente presente, in noi e tra noi. Ogni traccia di esso, ogni orma scoperta, diverrà tema del nostro canto e motivo di incanto per noi. Chissà se la nostra incapacità di ammirare Dio in noi stessi, l’insensibilità a scoprire i segni della sua presenza tra noi, non ci sta privando del sentirci amati da Dio! E come esprimere credibilmente la nostra scoperta se non a mo’ di meraviglia e di esaltazione? Un Dio amante merita dei poeti come testimoni. Non si tratta, come credevano i corinzi, di sapere meglio, di predire di più, di parlare diversamente: tutto sta nell’essere consapevoli di essere amati incomprensibilmente, prima di qualsiasi sforzo proprio. Parlerà bene di Dio chi sa, e vuole essere, ben voluto da Lui.