Le credenziali dell’apostolo di Cristo (1Cor 9,1-3). Paolo si dice libero, perché si sa inviato; e si proclama apostolo, perché ha trovato il Risorto. Questa doppia affermazione è fondamentale per cogliere la concezione paolina dell’apostolato. L’origine dell’apostolato si trova in un incontro personale col Risorto. L’esperienza di Cristo vivo fece del fariseo giudeo un apostolo cristiano. Il sorgere di nuove comunità confermò davanti agli altri apostoli, ancora attoniti di fronte all’ardore missionario dell’antico persecutore, che la sua chiamata proveniva da Dio (Gal 1,22-24; 2,7-9). L’apostolo nasce quando “vede” vivo Cristo Crocifisso ed ha come scopo il sorgere di una comunità cristiana. Entrambi gli avvenimenti segnano i limiti della vocazione apostolica. Solo un testimone del Risorto, uno che proclama quel che sa, perché parla di quel che ha visto, può pensare di essere apostolo, padre di comunità credenti. Sapere che il Signore è vivo perché lo ha incontrato e poter presentare una comunità come suo operato, come coronamento delle sue fatiche, sono le condizioni che autentificano il nostro lavoro come missione apostolica. Quando l’apostolo indica una meta alla sua comunità, deve aver già percorso il cammino, conoscere per esperienza le difficoltà, aver sperimentato la fatica e la gioia che precedono l’arrivo. Il miglior argomento apostolico per imporre l’obbedienza a Dio e il rispetto al fratello è poter proporre se stesso come servo di Dio e servitore del fratello.

La rinuncia apostolica al riconoscimento dovuto (1Cor 9,4-14). Paolo, che è un apostolo libero, ha rinunciato a vivere a spese della comunità. Non solo non debbono – e lo sanno i corinzi – mantenere l’eventuale moglie, come era d’uso con i primi predicatori itineranti del cristianesimo (1Cor 9,5). Nemmeno hanno da pensare al suo sostentamento (1Cor 9,4.6). La sua rinuncia a questo diritto è totalmente consapevole: potrebbe esigerlo, e con più diritto di altri, essendo il loro fondatore. Questa rinuncia al proprio salario ha una sua giustificazione: il vangelo non deve essere ricaricato con altre imposizioni esterne, oltre a quelle che comporta in sé stesso. L’evangelista non deve costituire un ostacolo al Vangelo che predica; per questo deve essere disposto al fatto che la recezione del messaggio non comporti l’accoglienza del portavoce; la liberazione da impedimenti personali, da soddisfazioni dovute all’apostolo, rende più libero il Vangelo di Dio. L’apostolo che attende ricompense, non è libero; se cerca riconoscimento non predica gratuitamente il Vangelo! Il vero apostolo non impone altri carichi ai suoi destinatari oltre al Vangelo predicato. Avendo liberato loro dal servizio ad altri dei, non pensa di metterli al suo servizio, personale o istituzionale. La libertà dei nostri non deve essere ridotta dai nostri desideri insoddisfatti né diretta dai nostri diritti da soddisfare. Solo il fratello debole, la cui coscienza occorre rispettare, delimita la libertà che Dio ci ha ottenuto.

La tattica dell’apostolo (1Cor 9,12-23). La libertà di Paolo ha come scopo il servizio dei suoi destinatari, secondo la descrizione del comportamento apostolico che sviluppa in seguito. Il testo è essenziale sia per comprendere l’atteggiamento personale di Paolo come per cogliere la sua concezione dell’apostolo cristiano. In esso non cerca di svelarci la sua tattica missionaria di adattamento alla prospettiva, alla sensibilità, ai bisogni dei suoi uditori, ma di manifestarci la sua opzione fondamentale. Il servo di Dio si sente libero da qualunque altra obbedienza, ma vuol essere servitore di coloro di cui Dio gli ha parlato quando lo ha chiamato all’apostolato. Rispondere positivamente alla propria vocazione gli richiede di rispondere positivamente ai suoi destinatari. Dover predicare un Vangelo, che non è proprietà dell’evangelista, è un servizio a Dio e agli ascoltatori. L’evangelista non diventa padrone di nulla, di nessuno, è piuttosto servo di tutti e del Vangelo. La servitù dell’amore, che equipara l’apostolo ai suoi destinatari, è la verifica della libertà del missionario cristiano. L’incarnazione di Dio la possono predicare con convinzione dei testimoni che vivono tale incarnazione tra loro; il prezzo da pagare per il dono dell’apostolato implica l’accettazione sincera e radicale del mondo dei nostri uditori. E questo, non per proselitismo, ma per obbedienza al Signore del Vangelo e della missione. Orbene, affinché questa assimilazione di costumi e di idee non porti alla perdita di identità dell’apostolo, Paolo allude ad un doppio criterio: da una parte, il missionario sa di essere radicato in Cristo; d’altra parte la finalità di questo sforzo non è quella di ottenere maggiore libertà per l’apostolo né più efficienza per il suo operato, ma la salvezza di qualcuno. La volontà di servizio è universale, la capacità di cambio e di adattamento non ha limiti, ma i risultati, non essendo in rapporto con lo sforzo necessario, possono essere scarsi. La salvezza è attuata da Dio. Il lavoro può essere improbo, ma non garantirà mai l’intervento di Dio. Dall’apostolo Dio non si attende il successo, ma il lavoro. Paolo non riduce questa sua scelta a mera tattica. Infatti confessa che da essa dipende la sua salvezza. Il fatto che altri abbiano accesso a Dio mediante la sua opera di missionario gli dà speranza di sentirsi sicuro davanti a Dio. La sua partecipazione al Vangelo per cui vive non è automatica: non saranno ricompensati i suoi sforzi né si terrà conto delle sue rinunce. In tal caso l’apostolo si salverebbe grazie al proprio operato personale; potrà invece ipotizzare il suo incontro col Signore Gesù rendendo possibile ad altri l’incontro con Lui. La mediazione per la salvezza degli altri rappresenta la garanzia per l’apostolo di poter confidare nella propria salvezza. Non gli resta altro cammino.

Il potere apostolico: poter rinunciare al proprio diritto. La rinuncia al proprio diritto non è inconscia. Paolo accumula motivi che potrebbe invocare per esigere il suo sostentamento dalla comunità. Le analogie, prese dalla vita reale, sono ovvie, per cui non occorre inventare conclusioni: il soldato, l’agricoltore, il pastore vivono del proprio lavoro. In più, l’apostolo trova un argomento migliore nella Scrittura: senza una punta di ironia, considera appropriata alla sua situazione apostolica una norma che riguarda gli animali domestici. Il predicatore cristiano è stato tenuto presente da Dio quando ha prescritto che si permettesse al bue di alimentarsi mentre lavora! La fatica dà diritto al sostentamento e il lavoratore si dà da fare perché spera di ricuperare le forze col frutto del proprio sforzo. Anche nell’eventualità che Paolo si facesse rimunerare, esigerebbe meno di quanto ha dato; le sue comunità rimarrebbero ancora in debito verso di lui. Per salvare la gratuità del messaggio, il messaggero deve saper rinunciare ai propri diritti, anche ai più nobili ed irrinunciabili. Il potere dell’apostolo risiede nella sua capacità di rinuncia personale. Non permettendo di essere sostenuto dalla comunità, risulterà più libero e convincente il Vangelo predicato.

Predicare: una necessità ineludibile. Riconoscersi obbligato a proclamare il vangelo per elezione divina (cfr. 1Cor 15,8-10; Gal 1,15-16) lo vincola, sottraendogli la libertà personale. Paolo sa che non fa quel che vuole, ma quanto gli è stato ordinato. Il Vangelo è il suo incarico e il suo compito, il suo da-fare e la sua ricompensa. La consapevolezza della sua chiamata personale lo libera da ogni altra necessità che non sia la predicazione. Tale è l’incarico che Dio gli ha affidato e si perderebbe se sprecasse la sua vita preoccupandosi di soddisfare le proprie necessità. L’apostolo, quindi, vive sotto il peso della chiamata: la volontà di Dio gli ha imposto un compito e dei destinatari precisi. L’inviato non è altro che un “mandato”, un servo. Ed il servizio, per definizione, è un lavoro non pagato, che non ha ricompensa né ottiene riconoscimento, non merita salario né ringraziamento. È così che la vocazione apostolica può diventare una condanna a vita, dato che si sperimenta come un bisogno che non arriva mai ad essere soddisfatto. Paolo vive permanentemente sotto l’etos dello schiavo (cfr. Lc 17,10). Chi è stato destinato a servire il Vangelo non può immaginarsi di liberarsi da esso, ma dovrà presentarlo libero da imposizioni personali. La rinuncia ai diritti è logica in colui che, sapendosi servo, non ha che doveri. Solo chi sa di essere schiavo di Colui che lo ha inviato, e pensa a rimanere tale, diventa libero e liberatore. Solo chi dà quel che gli è stato dato, può consegnarlo senza imporre qualcosa di personale. Perciò Paolo visse la sua missione come necessità ineludibile, come una irrimediabile imposizione (cfr. 1Cor 9,15-16)

L’apostolo, un atleta (1Cor 9,24-27). Con la similitudine della gara - un’esperienza molto nota alla comunità di Corinto, i cui giochi atletici erano famosi nel mondo greco-romano – avverte che non basta partecipare per assicurarsi il trionfo. La vita cristiana, per il fatto di essere grazia ricevuta, non esime per questo dallo sforzo, anzi lo esige. Chi è stato messo tra i corridori deve correre per vincere. Il corridore rinuncia a quanto può ostacolarlo, si impone una disciplina che lo porta ad astenersi anche da quanto è lecito, pur di conservare ciò che è importante: la speranza di continuare a correre verso la meta. L’austerità e il sacrificio personale non sono finalizzati ad un’ascesi moralista né a una svalutazione del corpo, ma al rispetto della comunità. È, appunto, questa la meta dell’autodisciplina apostolica.

(Da Io sono una missione #per la vita degli altri – Sussidio per le comunità SDB e FMA – pp. 39-48)

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