Proponiamo di seguito l’Editoriale di don Rossano Sala, con cui si apre la rivista “Affrontiamo la bestia dell’azzardo! Offrendo ai giovani ragioni di vita e di speranza” – Il Dossier di questo mese di novembre non avrei mai desiderato commissionarlo e non avrei mai voluto pubblicarlo. Ma il confronto con la realtà è ineludibile per la pastorale e per l’educazione. E non possiamo fare a meno, come si usa dire, di prendere il toro per le corna: purtroppo è un tema, quello del gioco d’azzardo – si manifesta in tante forme e provoca molti danni –, che va affrontato con coraggio e decisione, senza nasconderci sotto la sabbia. E senza far finta di niente, pensando che non esista o non ci tocchi. La cosa è più grave del previsto: la ludopatia è uno dei nuovi nomi della bestia dell’Apocalisse, che ci sta portando via tanti, troppi giovani. Una bestia che seduce tutti gli abitanti della terra, chiede adorazione e rende molti schiavi (cfr. Ap 13,11-17). Una forza bruta sta privando tanti giovani della vita buona, della vita degna, della vita giusta e della vita vera. Il gruppo di Redazione della Rivista, che cerca di riflettere e di approfondire le questioni che possono più di altre interessare la pratica pastorale, ha più volte sollevato questo problema della ludopatia, e abbiamo chiesto ad un gruppo di esperti di aiutarci a riflettere in profondità su questo fenomeno e ad aiutare tutti gli operatori pastorali a mettere in campo antidoti per guarire da questa malattia molto contagiosa. Il gioco, in tutte le sue forme, è ciò che da sempre caratterizza la buona umanità dell’uomo: in casa, con i propri fratelli e sorelle, il gioco ci insegna fin da piccoli a vivere in buona relazione, esprimendo la nostra creatività attraverso una sana competizione e una corretta rivalità; in oratorio si cresce giocando, assumendo la disciplina di squadra e facendo della lealtà una forma di vita buona; nell’adolescenza lo sport diventa per molti un modo sano per vivere una corretta relazionalità in un tempo non facile da gestire per tanti motivi; nella vita dei giovani è espressione del proprio carattere e della propria forza, tanto che sono loro a giungere a detenere i traguardi più alti e i record più imbattibili; nella vita adulta lo sport è un modo tutto speciale di esprimersi, di vivere la relazione di gruppo e di scaricare la propria tensione; anche nella vita degli anziani lo sport e il gioco stanno diventando sempre di più motivo per fare comunità, condividendo gioia e serenità. Ma che cosa succede quando il gioco si ammala e quando ci fa ammalare? Quando si gioca con il gioco, quando si cerca attraverso la scommessa quel colpo di fortuna che dovrebbe far virare la propria esistenza verso un futuro felice? Il gioco, che dovrebbe rendere gioioso il cuore dell’uomo, è purtroppo diventato per molti giovani veicolo di tristezza, forma di depressione, tentativo di sopravvivenza, chiusura del cuore e malattia dell’anima. Il demone della ludopatia abita la vita di alcuni giovani, corrompendo la loro giovinezza. È un dato di fatto, constatabile ad occhio nudo.

Perdita di speranza. La ludopatia, quella morbosa spinta a scommettere e a tentare la fortuna, è un sintomo di qualcosa di più grave, prima di tutto a livello culturale e sociale. Ma poi il tutto interpella anche la nostra fede cristiana. Bisogna andare alle radici profonde di questo fenomeno. La tesi che metto alla vostra attenzione è molto semplice, ma insieme molto radicale e si può esprimere più o meno così: “Chi perde la speranza è spinto a tentare continuamente la fortuna”. Non è difficile, in questo momento storico, vedere come proprio alla speranza manchi ossigeno per respirare. Da un punto di vista sociale e anche ecclesiale è purtroppo molto facile constatare che ci sono tanti motivi per cui un giovane possa perdere la speranza e deprimersi: la dinamica globale nel suo insieme scoraggia perché caratterizzata dall’abbattimento di fragili ponti e dalla costruzione di muri sempre più invalicabili; una politica di basso profilo senza una leadership affidabile la fa da padrone; la mancanza di lavoro stabile invita ad abbandonare il proprio paese in vista di una vita migliore da ricercare altrove; la corruzione in tanti ambienti domina la scena e sembra imbattibile; la Chiesa parla continuamente di fraternità ma si vede ad occhio nudo che ha sempre più difficoltà a viverla nel quotidiano; gli adulti appaiono tanto concentrati in loro stessi da vivere in concorrenza più che in alleanza con i giovani. E si potrebbe continuare. Dovunque si guardi è difficile scorgere dei chiari segnali di luce, di chiarezza, di incoraggiamento e di sostegno. Ci sono evidentemente lodevoli eccezioni, ma il clima generale condizionato dagli strumenti di comunicazione crea un clima assai scoraggiante: il bombardamento mediatico mette sempre l’accento sul negativo, sottolinea ciò che non va, punta sul dato scandalistico, cerca di fare marketing sulle news che sparano a zero su tutto e su tutti. Vale sempre la sentenza per cui un albero che cade fa più rumore di una foresta che cresce, per cui all’udito di qualcuno che influenza tanti sembra che la foresta stia cadendo, generando così crisi di speranza. È evidente che la capitolazione della speranza porta con sé gravi conseguenze: perché la speranza fa riferimento al futuro, a ciò che non si vede, quindi, dal punto di vista antropologico, è la virtù dell’immaginario che ci spinge in avanti, di un’anima certa che il domani sarà migliore dell’oggi, che ciò che verrà ci offrirà più gioia e pace rispetto a quello che stiamo vivendo adesso. Senza speranza ci si deprime, senza speranza la vita non ha più la forza di essere vissuta, senza speranza ci si chiede il perché della propria nascita e si maledice il giorno in cui siamo venuti al mondo. Che fare? La soluzione più immediata è tentare la fortuna, ritornare all’idea appagante che la nostra vita non dipende dal nostro impegno responsabile ma dal fato, dalla dea bendata che in un mondo difficile da affrontare ci offre soluzioni immediate magiche a buon mercato. Tentare la fortuna è la conseguenza dell’aver perso la speranza. Mi sento molto piccolo davanti a queste analisi e lascio volentieri la parola a uno dei miei tanti maestri, che mi ha insegnato molto attraverso lo studio del suo itinerario di vita e soprattutto nell dialogo e nell’amicizia. Pietro Barcellona, pensatore siciliano di indubbia profondità e visione, riguadagnato alla fede attraverso un autentico incontro con Gesù, a proposito della questione del gioco d’azzardo, diceva: «La televisione ci propina continuamente quiz che possono produrre vincite straordinarie o lotterie nazionali che si concludono con feste e balletti. Ciascuno è sicuramente arbitro del proprio destino e anche dei propri quattrini, ma è paradossale che, nell’epoca dei sacrifici, lo Stato promuova il gioco d’azzardo a metafora di ogni speranza perduta. Come è noto, lo Stato guadagna sul gioco d’azzardo; tuttavia, mentre apparentemente sono scoraggiati i casinò e le bische, di fatto l’intero immaginario popolare è spinto a contare sulla fortuna anziché sulle proprie risorse e sul proprio lavoro. Tutti ormai sappiamo che il senso comune è pesantemente condizionato dal sistema mediatico e, quindi, la diffusione inaudita della spinta pubblicitaria a partecipare ai giochi d’azzardo è sicuramente un segno dei tempi che va interpretato e meditato. Al posto della speranza in un futuro migliore, ottenuto attraverso l’impegno e la responsabilità di ciascuno, è subentrato uno strano immaginario secondo cui la vita di ciascuno dipende da un colpo di fortuna. Se si esamina un po’ più a fondo questo fenomeno, così diffuso anche tra le parti più povere della popolazione, ci si accorge che siamo in presenza di una vera e propria somministrazione di “droga pubblica” che intossica i sentimenti e il rapporto con la realtà. Come diceva Albert Einstein, Dio non gioca a dadi e l’uomo, che è fatto a sua immagine e somiglianza, dovrebbe considerare la fortuna un puro accidente della propria attività e della propria vita. Il gioco d’azzardo è stato trasformato, attraverso la complicità dello Stato, in un coinvolgimento di massa di tutti i ceti sociali, e mentre nelle culture passate il giocatore d’azzardo veniva considerato un avventuriero dissipatore, oggi un ragazzo o una ragazza che bruciano soldi nelle macchine istallate un po’ dovunque non vengono considerati neppure soggetti a rischio. Il rischio di essere intossicati dall’ansia del gioco fino a perdere ogni contatto con la propria realtà». [1]

Una cultura della speranza. La lucidità e la chiarezza non lasciano dubbi. La “cultura del colpo di fortuna” che fa ricchi pochi e poveri molti è qualcosa che deve essere combattuto attraverso una rinnovata “cultura della speranza” di cui oggi sentiamo davvero la mancanza. Mi ha sempre molto colpito e fatto bene rileggere l’ultima parte del numero 31 della Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, che così dice: «Legittimamente si può pensare che il futuro dell’umanità sia riposto nelle mani di coloro che sono capaci di tramettere alle generazioni di domani ragioni di vita e di speranza». Questa sentenza molto pregnante e ricca di significato dice bene il compito profetico della Chiesa nella storia degli uomini: offrire ragioni di vita e di speranza ai giovani in un mondo che per tanti versi li spinge verso l’interpretazione dell’esistenza all’insegna del godimento autistico. E che li convince che la speranza è un’illusione da cui liberarsi. Dall’ascolto sinodale abbiamo appreso dell’aumento del disagio giovanile proprio nei territori di maggiore ricchezza, dell’aumento del suicidio giovanile perché vi è fatica a dare significato alla propria esistenza, dell’ampliarsi del fenomeno della depressione tra i giovani. A volte anche la vita della Chiesa e il modo di vivere dei cristiani, anziché essere fonte di significato e di gioia, diventa motivo di pessimismo. È nostro compito risvegliare l’immaginario delle giovani generazioni, offrendo loro dei motivi per vivere e sperare. In questo momento i giovani, come si diceva dei laici nella Chiesa dopo il Concilio Vaticano II, sono dei giganti addormentati che vanno risvegliati! Lo stesso lavoro educativo poggia radicalmente sulla speranza, e forse per questo essa è in crisi in questi ultimi decenni. Lo sottolineava Benedetto XVI nella sua famosa lettera alla Diocesi di Roma nel lontano 2007 quando lanciò la famosa espressione “emergenza educativa”, che in fondo era connotata nel profondo come “crisi di speranza”. Andiamoci a rileggere quella lettera, ci farà del bene. Nell’impegno educativo con i giovani mi ha sempre accompagnato la parabola del seminatore, che secondo l’evangelista Marco è la matrice delle parabole: «Se non comprendete questa parabola, come potrete comprendere tutte le altre?» (Mc 4,13). Ho sempre raccolto molto più in là rispetto a quando ho seminato qualcosa di buono. Se ci pensiamo bene, il seminatore di quella parabola è caratterizzato da due atteggiamenti profondamente uniti: la generosità e il disinteresse. Generosità, perché getta il seme dappertutto, anche dove sembra non esserci alcuna speranza di crescita; disinteresse, perché poi lascia che il seme faccia il suo corso, non preoccupandosi più di che cosa accadrà. Essere dei buoni educatori significa essere dei buoni seminatori di vita e di speranza: gettare il seme della vita con generosità e ottimismo, e lasciare che la forza del seme si esprima da sé. Offrendo così vita al seme e speranza alla terra.

NOTA

1 P. BARCELLONA, La speranza contro la paura, Marietti 1820, Genova 2012, 11-12. Per un approfondimento del tema di permetto di rimandare a tutto il capitolo X del testo: R. SALA (con A. Bozzolo, R. Carelli e P. Zini - Prefazione di G. Mari e postfazione di S. Currò), Pastorale giovanile 1. Evangelizzazione ed educazione dei giovani. Un percorso teorico-pratico, LAS, Roma 2017, 400-433. Per la conoscenza dell’itinerario di conversione di Pietro Barcellona si può leggere R. SALA, L’umano possibile. Esplorazioni in uscita dalla modernità (prefazione di P. Sequeri – Postfazione di P. Barcellona), LAS, Roma 2012, 341-406 e anche R. SALA, Omaggio a Pietro Barcellona. Uomo e profeta del nostro tempo, in «Salesianum» 76 (2014) 465-495.

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