Ci si potrebbe attendere da Paolo che, dovendo utilizzare simile formulazione, si accontenti di ripetere le espressioni usuali. Invece è un suo tratto tipico l’approfittare del prescritto delle sue lettere per anticipare idee fondamentali e lasciare intravedere i sentimenti personali che alimentava nei confronti dei suoi. Nel prescritto, quindi, ha lasciato la chiave di interpretazione della lettera: le idee matrici in base alle quali ha elaborato la sua risposta alla comunità e i sentimenti che nutre per essa, la consapevolezza della sua missione e la sua visione personale della comunità.

Autocoscienza di un apostolo (1Cor 1,1). Paolo presenta sempre se stesso come apostolo di Cristo. Le sue prime parole lo identificano come inviato del Signore alle sue comunità. La sua lettera serve non solo per scambiare notizie tra persone conosciute, ma piuttosto realizza l’incarico di Dio. Tutto ciò che dovrà dire, sarà scritto e detto come delegato da Cristo: le parole dell’apostolo nascono dalla sua obbedienza ad una chiamata di Dio e non dalla sua voglia di parlare né dal suo bisogno di tenersi in contatto con la comunità. Chissà se la scarsità di parole apostoliche che contraddistingue la nostra missione non stia indicando una perdita in noi di consapevolezza apostolica! Come può scoraggiarsi colui che riconosce che la propria missione deriva da una volontà positiva di Dio? Le nostre comunità hanno bisogno che noi ci presentiamo davanti ad essa come mandati da Dio, come ci vuole Cristo. Allora recupereremo la parola che, essendo quella di un inviato, sarà Parola di Dio per i destinatari. Recupereremo l’audacia e la libertà di annunciarla, senza dover temere il fallimento proprio o il rigetto altrui. E recupereremo il fratello che tanto ci manca! Di solito, Paolo riconosce come fratello e associa come mittente della lettera – uno scritto che è prodotto della sua coscienza personale di inviato – colui che ne condivide la missione apostolica. Dovremmo saper riconoscere in quanti ci sono compagni di missione altrettanti fratelli: il Signore, che ci ha affratellati con uno stesso compito, ci vuole affratellati anche mentre realizziamo la sua volontà. Il Dio che ci ha incaricato di una missione non ci ha lasciati soli nello svolgimento del compito, ci ha dato tanti fratelli quanti sono gli apostoli inviati a questo scopo insieme a noi. La fraternità realizzata ci attesta agli occhi dei destinatari come legittimi inviati di Dio. Invece la fraternità infranta non manifesta che la nostra missione personale viene da Dio, per quanto efficiente possa essere. Così pure, un apostolato che provochi la divisione tra gli inviati non può essere considerato come legittimo.

Comprensione apostolica della comunità (1Cor 1,2). Dopo essersi presentato, Paolo identifica i suoi destinatari come Chiesa di Dio che è in Corinto. Nell’espressione “chiesa” è presente la consapevolezza dei primi cristiani di appartenere ad un popolo, la cui esistenza si deve ad una chiamata divina. La comunità cristiana non è un’associazione di uomini liberi che si riuniscono in uno stesso luogo e si prefiggono delle mete comuni. La Chiesa di Dio è nata perché la Parola ha convocato degli uomini che l’hanno accolta. Non sarà importante, quindi – come lo era per Israele – lo spazio, una terra, in cui riunirsi: qualsiasi luogo è buono sempre che sorga una comunità di uditori di Dio, a condizione però che trovi obbedienza alla sua chiamata. La comunità cristiana, quella a cui apparteniamo e quella a cui ci doniamo, è il luogo dell’ascolto di Dio e lo spazio per l’obbedienza a Lui. Il Dio della comunità cristiana è un Dio che riunisce, quando chiama. La comunità credente si forma attorno ad una comune volontà di ascoltare la Parola.

Un Dio che parla, origine della vita comune. Siamo nati come credenti e come apostoli dalla volontà di comunicazione del nostro Dio, da quell’impulso divino a chiamarci per nome e darci l’esistenza. Fare della nostra attività quotidiana l’ascolto di Dio, convertire la nostra attività apostolica come mezzo e come modalità di tale ascolto, rinnoverà necessariamente, e senza eccessivo sforzo, la nostra vita in comune. Occorre, dunque, avere il coraggio di mettere al primo posto tra le priorità comunitarie l’ascolto della Parola: liberarsi di essa significa liberarsi di Dio.

È qui, indubbiamente, la radice della povertà spirituale che è, al tempo stesso, la causa della nostra scarsa creatività apostolica. Colui che ha creato l’uomo ha conversato con se stesso e ha voluto ripetere tale dialogo facendo ‘loquace’ l’uomo, a sua immagine e somiglianza (Gn 1-2); Colui che diede la nascita ad un popolo libero decidendosi a parlare ad alcuni schiavi (Es 3); Colui che ha inviato la sua Parola per farci suoi figli (Gv 1), ha voluto affidarci le sue parole, affidandoci ad una comunità che ci custodisca e affidandoci delle comunità da custodire.

Un luogo comune in cui provare la risposta comune. Non vi è nulla di straordinario nel fatto che la nostra vita comune sia piena di tensioni e di vuoto spirituale, quando ci siamo riempiti di preoccupazioni che non ci lasciano tempo né voglia di ascoltare Dio. E come sentirsi ‘signore’ di una vita comune quando non si desidera essere servi del Signore all’interno della comunità?

Paolo sa molto bene che la sua comunità di Corinto non è la comunità migliore per il fatto di risiedere in quella città, ma non dimentica che la fedeltà dev’essere provata e realizzata proprio a Corinto. Tuttavia poiché la chiamata di Dio ci ha riuniti in un luogo determinato, qualunque sia la risposta che tentiamo di dare, dev’essere realizzata in tale luogo: obiettare sui luoghi in cui Dio ci vuole significa mettere degli ostacoli all’amore che Dio ha per noi: la comunità che Dio ci ha dato insieme alla chiamata è il luogo della conversione che ci viene richiesta, poiché è il luogo della conversazione con Dio a cui siamo chiamati.

Una definizione della comunità dei chiamati. Paolo aggiunge una triplice caratteristica della comunità corinzia. I congregati da Dio sono santificati in Cristo Gesù, chiamati alla santità, invocatori del nome di Dio. La santità cristiana, quindi, definisce la comunità di Dio, la limita e la distingue. Il Dio che chiama, santifica; eleggendo, separa; separando, consacra. Per chi è chiamato da Dio, la santità non è uno stato da raggiungere né un ideale da sognare, è una situazione da mantenere.

Quindi la santità non deve essere considerata progetto di vita, ma vita posseduta: più che meta finale è un punto di partenza; è grazia e non compito da svolgere. Per la persona chiamata la santità è diventata il ‘negozio’ (nec-otium) della sua vita, l’occupazione insostituibile della sua esistenza, destino e origine della sua vocazione.

Non è marginale che oggi gli apostoli per volontà di Dio corrano il pericolo di tenere lontano dal loro vocabolario e dal loro cuore la santità. Questa scarsa sensibilità di fronte a tutto quello che può suonare come santità non è altro che il sintomo – uno dei tanti, ma non il meno significativo – della perdita di identità vocazionale. Poiché dubitiamo di poter essere santi, siamo restii a proporre la santità ai nostri destinatari. Lavorare in comunità e per essa costringe a farsi santi facendo santi. Recuperando l’entusiasmo per la vita comunitaria, recupereremo il desiderio - che qualche volta abbiamo nutrito, ma che non abbiamo saputo mantenere – di essere santi.

Il cristiano, inoltre, è definito da Paolo come colui che invoca il nome del Signore Gesù in ogni luogo. L’invocazione di Cristo Gesù è il compito della persona chiamata. Dio ci ha tolti dall’anonimato affinché Egli non cadesse nell’oblio! Coloro che sono stati invocati da Dio devono convertirsi in invocatori di Dio. La dimenticanza di Dio nel nostro mondo si deve più all’incapacità dell’apostolo moderno di parlare di – e soprattutto con – Dio, piuttosto che al silenzio di coloro che, non sapendosi chiamati, non hanno motivo di rispondere.

Non è un fatto casuale che ogni crisi vocazionale provochi nell’apostolo un oblio del nome di Dio. Ricordando il suo nome, ci ricordiamo della nostra chiamata. E chi sta lottando per disfarsi di essa comincia col tralasciare di invocare il nome del Signore Gesù. Le nostre difficoltà nella preghiera comune mettono a nudo l’infedeltà vocazionale in cui viviamo e alimentiamo nuove tentazioni di distoglierci dalla vocazione. Ritornare ad invocare Cristo, fare del ricordo comune del suo nome un compito fondamentale della nostra vita, ci restituirà l’entusiasmo per la vocazione ricevuta.

Il saluto liturgico (1Cor 1,3). Paolo chiude l’intestazione delle sue lettere con un saluto liturgico. Le sue lettere, destinate ad essere lette in celebrazioni comunitarie, sono impregnate dello spirito festoso proprio delle riunioni cristiane. Ciò è tanto più sorprendente in quanto la vita liturgica delle comunità paoline era ancora sul nascere: vent’anni scarsi dopo la morte di Gesù, le celebrazioni comunitarie cristiane necessariamente non potevano essere tanto ricche nei contenuti, né varie nelle forme.

Per questo l’uso di formule liturgiche da parte di Paolo nasconde, al di là della casualità, una determinata comprensione della comunità cristiana. Se saluta i suoi destinatari col saluto tipico delle riunioni liturgiche è perché considera che la sua lettera è al servizio della convocazione di Dio. L’opzione dell’apostolo è al servizio della ri-creazione di comunità credenti. Il saluto di Paolo augura alla sua comunità ciò che egli sa che essa già possiede da parte di Dio: la grazia, che è benevolenza divina senza contraccambio e senza esigenze previe, e la pace, che è la condizione di chi sa di essere già salvato e che esclude ogni timore ed ansietà, colla fiducia poggiata sulla fedeltà di Dio.

Invocazione allo Spirito

Vieni, o Spirito Santo, e dà a noi un cuore nuovo, che ravvivi in noi tutti i doni da Te ricevuti con la gioia di essere Cristiani, un cuore nuovo sempre giovane e lieto.

Vieni, o Spirito Santo, e dà a noi un cuore puro, allenato ad amare Dio, un cuore puro, che non conosca il male se non per definirlo, per combatterlo e per fuggirlo; un cuore puro, come quello di un fanciullo, capace di entusiasmarsi e di trepidare.

Vieni, o Spirito Santo, dà a noi un cuore grande, aperto alla Tua silenziosa e potente parola ispiratrice, e chiuso ad ogni meschina ambizione, un cuore grande e forte ad amare tutti, a tutti servire, con tutti soffrire; un cuore grande, forte, solo beato di palpitare col cuore di Dio. – Beato Paolo VI

Per attualizzare. «[1]Paolo, chiamato ad essere apostolo di Gesù Cristo per volontà di Dio, e il fratello Sòstene, [2]alla Chiesa di Dio che è in Corinto, a coloro che sono stati santificati in Cristo Gesù, chiamati ad essere santi insieme a tutti quelli che in ogni luogo invocano il nome del Signore nostro Gesù Cristo, Signore nostro e loro: [3]grazia a voi e pace da Dio Padre nostro e dal Signore Gesù Cristo».

Chiamati insieme, per un ascolto concorde, in cammino verso la santità. Come può scoraggiarsi colui che riconosce che la propria missione deriva da una volontà positiva di Dio? Proprio da questa consapevolezza occorre ripartire per una rinnovata coscienza di essere chiamati dalla bontà misericordiosa di Dio. Sicuri che Dio ci chiama per vivere insieme il suo progetto. L’essere «affratellati» nel cammino apostolico, significa non solo accogliere il fratello o la sorella come dono di Dio, ma essere certi che solo nella «concordia» è possibile una missione feconda. Non può venire meno il ricordo della chiamata. È la motivazione fondamentale del nostro vivere e lavorare insieme. «Chi porta in sé la memoria di Dio, si lascia guidare dalla memoria di Dio in tutta la sua vita, e la sa risvegliare nel cuore degli altri.  Memoria di essere chiamati qui e ora» (Rallegratevi 4).

  • Ci chiediamo: sappiamo ancora chi siamo? Una identità incerta può spingere, specie nei momenti di difficoltà, verso un’autorealizzazione malintesa, con estremo bisogno di approvazioni che se non vengono possono condurre alla paura del fallimento. Abbiamo tempo per curare e rafforzare la nostra identità di consacrati? Quale potrebbe essere un percorso per consolidarla comunitariamente?

Una chiamata che consolida, appunto, il nostro apostolato. Ma è davvero così per le nostre fraternità? Sentiamo forte la necessità di un rafforzamento vocazionale nel recuperare la gioia della chiamata. Una gioia che nasce e rinasce dalla amicizia con Gesù e dalla frequentazione della sua Parola: Parola di vita, di conversione, di illuminazione. Senza esitare le nostre comunità possono avere maggior coraggio nel recuperare la «Parola di Dio», l’audacia e la libertà di annunciarla recuperando così il fratello e la sorella, compagni di missione. Infatti l’essere radicati nella sua Parola ci consente di vivere un rapporto più personale con Lui e «il rimanere in Cristo ci permette di cogliere la presenza del Mistero che ci abita e fa dilatare il cuore secondo la misura del suo cuore di Figlio» (Rallegratevi 5).

  • Ci chiediamo: che posto occupa la Parola nelle nostre comunità? Quanta cura dedichiamo alla meditazione, che è per noi nutrimento essenziale e fonte di discernimento?

La santità, intesa come vita in Dio e per Dio, è vita nello spirito e l’uomo o la donna spirituale vive il suo cammino nella docilità allo Spirito Santo perché è lo Spirito Santo che trasforma la nostra vita. Che cos’è il nuovo se non una vita intessuta, nello Spirito Santo, di fede, speranza e carità? L’uomo o la donna spirituale ha la grazia, la forza, il coraggio, di scegliere per il «nuovo», cioè di scegliere per Cristo, nella direzione di Cristo, scegliendo la sapienza che è Cristo, la speranza che viene da Cristo, l’amore come appare in Cristo. Non dimentichiamo che: «Siamo invitati ad ogni età a rivisitare il centro profondo della vita personale, laddove trovano significato e verità le motivazioni del nostro vivere con il Maestro, discepoli e discepole del Maestro. La fedeltà è consapevolezza dell’amore che ci orienta verso il Tu di Dio e verso ogni altra persona» (Rallegratevi 6).

  • Ci chiediamo: siamo consapevoli che lavorare in comunità e per essa costringe a farsi santi facendo santi? L’invocazione regolare, la preghiera comunitaria, hanno quella attenzione e quella cura che favorisce la costruzione di uomini e donne di fede?

Preghiera conclusiva

Vergine Maria, Regina dei Santi, e modello di santità!

Tu oggi esulti con l’immensa schiera di coloro che hanno lavato le vesti nel “sangue dell’Agnello” (Ap. 7, 14).

Tu sei la prima dei salvati, la tutta Santa, l’Immacolata.

Aiutaci a vincere la nostra mediocrità.

Mettici nel cuore il desiderio e il proposito della perfezione.

Suscita nella Chiesa, a beneficio degli uomini d’oggi, una grande primavera di santità. – San Giovanni Paolo I

(Da Io sono una missione #per la vita degli altri – Sussidio per le comunità SDB e FMA – pp. 12-17)

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