La storia è fatta di imperfezione, di forme da smussare, di cerchi venuti male. Questa è l’umanità da amare.

Alla fine del Vangelo, la Chiesa che viene inviata ad annunciare è una Chiesa imperfetta. Fin dall’inizio ci aveva accompagnato la simmetria del numero dodici: era l’ideale, il compimento del nuovo Israele, il modello che prende corpo. Ma ora la Chiesa si trova sciancata, senza un pezzo, barcollante, come un tempio greco senza una colonna: «Gli undici discepoli, intanto, andarono in Galilea, sul monte che Gesù aveva loro indicato» (Mt 28,16).

È quella la Chiesa inviata ad annunciare l’amore di Dio. Una Chiesa che si deve muovere: non può rimanere in Giudea, ma deve uscire, camminare, arrivare fino in Galilea, dove trova un pubblico imperfetto, poco ortodosso, che puzza di pesce e non ha l’odore dell’incenso.

A volte, anche noi preti, vorremmo delle assemblee perfette: quelle che comprendono le nostre parole, ma non troppo per non farci concorrenza, vorremmo dell’assemblee affettuose, ma non impiccione, vorremmo assemblee silenziose, ma anche gioiose. Invece ci troviamo davanti sempre assemblee imperfette, come la Chiesa nascente, ed è questa la Chiesa da amare.

La Chiesa inviata ad annunciare l’amore di Dio è una Chiesa che dubita e persino un po’ ipocrita: «Quando lo videro, si prostrarono. Essi però dubitarono» (Mt 28,17). C’è un atteggiamento esteriore che non corrisponde alla predisposizione interiore. È la nostra imperfezione di cristiani che continuano, fintamente convinti, nelle loro pratiche, mentre nel profondo ci lacera il dubbio. È l’imperfezione di ogni cammino spirituale, di ogni fede che si interroga, di ogni credente che non può non sostare un po’ nella stazione del dubbio.

Solo questa Chiesa imperfetta può annunciare l’amore vero, un amore che non è solitario, non è l’amore del numero uno, non è l’amore del motore immobile di Aristotele, beato nella sua perfetta solitudine, ma non è neanche l’amore del due, l’amore adolescenziale, l’amore della coppia chiusa in se stessa, dove io amo te e tu ami me e tutto il resto non esiste. Se l’amore dell’uno è l’amore del narcisista, di chi non vuole chiedere, di chi si considera l’origine e la fine del mondo, l’amore del due è l’amore della reciprocità sterile, l’amore che non dà frutto e che ben presto si svuota.

L’amore vero è quello dell’eccesso, l’amore fuori di sé, è l’amore che si consegna ad altri e non resta chiuso né nell’isolamento né nella reciprocità. Per questo l’amore vero può essere solo trinitario! È l’abbraccio tra il Padre e il Figlio consegnato all’umanità. È lo spazio della relazione tra il Padre e il Figlio dentro cui ogni uomo è invitato ad abitare. È la comunione che non si esaurisce nella reciprocità, ma che diventa dono per altri. Abbraccio, spazio, comunione, nomi diversi per dire Spirito santo!

La vana ricerca della forma perfetta ci allontana dalla pienezza dell’amore perché ci chiude nell’isolamento dell’uno, nell’illusione di prenderci cura in maniera assillante del nostro io. Altre volte, quella vana ricerca della forma perfetta ci trascina nel vortice della reciprocità, in cui l’uno diventa misura dell’altro senza arrivare mai alla meta inesistente di un equilibrio consolidato. Non ci resta dunque che amare l’imperfezione, perché solo quando avvertiremo una mancanza, potremo essere riempiti.

Leggersi dentro

  • Che rapporto hai con l’imperfezione, ti spaventa o sei disposto ad accoglierla?
  • Che tipo di amore è il tuo: quello dell’uno, quello della reciprocità o quello trinitario?