Il dualismo digitale, assai diffuso e fonte di grandi distorsioni, consiste nel pensare che la realtà autentica sia solo quella materiale, e che il “virtuale” sia di per sé una forma di realtà impoverita, inautentica, che sottrae tempo ed energie alla realtà “vera”: un luogo di doppiezza, che favorisce la costruzione di identità fittizie e di relazioni superficiali e strumentali. Una trappola che crea dipendenza. Questa impostazione è costruita attorno alla frattura tra elementi che sono invece continuamente in tensione (siamo sempre condizionati e liberi insieme) e a una loro contrapposizione forzata. Come se anche le relazioni faccia a faccia non potessero essere inautentiche! Il dualismo non corrisponde all’esperienza che i giovani hanno della Rete. Per loro, infatti, si tratta di un’estensione smaterializzata, ma nondimeno reale, dei territori quotidiani di esperienza, fondamentale per la manutenzione e l’allagamento delle proprie cerchie relazionali. Su questi territori si entra col proprio nome, e la maggior parte delle interazioni riguardano persone con cui si ha a che fare anche offline. Crescono perciò le piattaforme di messaggeria mobile, in particolare WhatsApp, vero cordone ombelicale con le relazioni più strette. Noi siamo gli stessi online e offline. E se non lo siamo non è colpa degli ambienti, ma nostra. Basta leggere Pirandello per riconoscere che ben prima degli avatar e dei profili l’essere umano tende a recitare una parte, a costruirsi un personaggio sui vari palcoscenici della vita sociale. In realtà le nostre relazioni sono a rischio superficialità e povertà in ogni ambiente, e non certo per colpa della tecnologia, bensì di una cultura iperindividualista che ha preceduto di gran lunga l’avvento del web. Oggi i nostri ambienti sono sempre più “misti” e i confini tra i media e l’ambiente sempre più sfumanti. La convergenza, e non la contrapposizione, è il tratto principale di quello che negli Orientamenti pastorali della CEI per il decennio corrente viene definito il “nuovo contesto esistenziale”. D’altra parte, nel Messaggio per la 47° Giornata Mondiale DELLE Comunicazioni Sociali, Benedetto XVI delegittima definitivamente l’ipotesi del dualismo quanto afferma: “L’ambiente digitale non è un mondo parallelo o puramente virtuale, ma è parte della realtà quotidiana di molte persone, specialmente dei più giovani. È parte del tessuto stesso della società”.

Il secondo pregiudizio è quello del determinismo tecnologico secondo il quale la tecnologia sarebbe la causa principale di una serie di trasformazioni, dall’indebolimento delle relazioni alle primavere arabe: ma la tecnologia non ci rende né stupidi né socievoli né tantomeno produce rivoluzioni. La tecnologia non “fa”: siamo noi che facciamo, pur dovendo tenere conto, come sempre nella vita quotidiana, dei condizionamenti inevitabili. Anche quello digitale non è neutro ma, come ogni ambiente, presenta rischi, opportunità e nuove sfide con le quali ci dobbiamo misurare: gli effetti non sono mai netti, ma sempre ambivalenti e complessi. E soprattutto non son un destino già scritto. Quindi il tecnologico non produce l’antropologico, né in negativo né in positivo: tra la connessione (tecnica) e la relazione (umana), per esempio, c’è sempre il salto ella nostra libertà, della responsabilità, dell’impegno a far durare oltre che a dare inizio. Due dimensioni tipicamente umane – libertà e responsabilità – che la tecnologia non può darci né toglierci.

E infine il divario digitale. Pensare che la Rete sia una “moda Passeggera”, o una cosa per i giovani, o una dimensione in fondo irrilevante per la vita “vera” – come molti adulti tendono a fare – è un errore grave: forse il nostro approccio al web sarà sempre elementare e impacciato, ma abbiamo il dovere di cogliere almeno le logiche che stanno alla base del nuovo ambiente, se vogliamo poter comunicare con le nuove generazioni e continuare a trasmettere loro qualcosa. Non si può educare oggi se no si fa lo sforzo di conoscere il paesaggio “misto” in cui i giovani si muovono con tanta naturalezza. Con la consapevolezza che la questione principale non è tecnica ma epistemologica e poi etica: non si tratta di saper fare, ma di com-prendere (prendere insieme): per esempio, che oggi dare e ricevere, produrre e consumare, conoscere e condividere, esserci e partecipare, apprendere e fare, insegnare e imparare non sono opzioni alternative o appannaggio di ruoli differenti, ma si ricongiungono grazie alla logica interattiva e partecipativa del web. O che essere liberi non significa avere più possibilità di scelta da cogliere ciascuno per proprio conto, bensì contribuire, condividere, liberarsi a vicenda migliorando le condizioni del mondo comune. Anche l’educare oggi non può prescindere da questa consapevolezza. Il divario digitale non è dunque un dislivello cui arrendersi, ma una sfida da cogliere per costruire nuove alleanze intergenerazionale, dove ciascuno ha da dare e da ricevere.

Chiara Giaccardi, I media digitali, in “Di cielo e di terra” a cura di Fabris e Maffeis, p.61-65