Lo specchietto per le allodole della guerra necessaria, nel tempo si e pericolosamente associato all’espressione “danni collaterali”, diventata insieme alla variante “effetti collaterali” (o ancor peggio “vittime collaterali”), assai diffusa nel linguaggio comune. Queste ultime si costituiscono come parte integrante del lessico delle forze militari in mano alle potenze internazionali, e vanno a denotare gli effetti imprevisti, accidentali, nocivi di un piano bellico.

Come se fosse normale fare la guerra, elaborare delle strategie che hanno in se una controparte umana pesantissima, fatta di centinaia di migliaia di uomini, donne, bambini che muoiono sotto il fuoco “strategico” di bombe intelligenti e proiettili; una decisione di un’arroganza violenta, appannaggio di pochissimi leader, che scelgono di sacrificare intere popolazioni ai piedi dell’idolo economico/politico di turno.

Come se fosse normale l’uso machiavellico della violenza, della crudeltà, per il solo fine della conquista o della conservazione del potere. Citando Bauman, si potrebbe dire che la giustificazione alle atrocità della guerra, si nasconde dietro il principio espresso nel detto allegorico “non e possibile fare una frittata senza rompere le uova”: il problema e che non sono le uova/persone a scegliere di fare la frittata, senza dimenticare che e lo chef/potente del momento a decidere quali e quante uova verranno sacrificate in nome della “giusta” frittata. Uova che, certamente, non potranno gustare il risultato di un sacrificio non scelto.

Ma soffermiamoci ancora per poco sulle espressioni “collaterali”, danno ed effetti, che saranno le protagoniste dell’intero dossier, evidenziando fra le due una sottile distinzione. La parola “danno” e strettamente connessa alla “condanna”, allo scontare una pena per qualcosa che non e stato commesso da chi e vittima dello stesso danno (come i civili che muoiono a causa di un conflitto), mentre il termine “effetto” ha quasi una valenza medica. Parlare degli “effetti collaterali” di una guerra, conferisce a questa il lustro di una medicina necessaria da assumere per guarire da una malattia. Ma la guerra non e il farmaco giusto; non cura la malattia, uccide il paziente. La tragedia delle vittime e la sola verità della guerra.

Una verità che all’indomani della Seconda guerra mondiale e dei suoi quasi 50 milioni di morti, ha fatto sì che dalle macerie rinascesse la speranza di una comunità in cui i rapporti umani fossero fondati sulla solidarietà e il rispetto reciproco. Una speranza che ha condotto all’istituzione delle Nazioni Unite, come dichiarato nella premessa dello Statuto dell’ONU: ≪Salvare le future generazioni dal flagello della guerra, che per due volte nel corso di questa generazione ha portato indicibili afflizioni all’umanità, riaffermare la fede nei diritti fondamentali dell’uomo, nella dignità e nel valore della persona umana, nell’uguaglianza dei diritti degli uomini e delle donne e delle nazioni grandi e piccole≫. Settant’anni dopo le idee e le speranze che l’ONU portava con se, sono state completamente disattese; i diritti fondamentali, cancellati dal reiterarsi continuo della guerra che, negando il diritto di vivere, nega tutti i diritti umani. Anche se scontato, e opportuno ricordare che nella maggior parte dei Paesi sconvolti dalle violenze, chi paga il prezzo più alto sono uomini, donne, bambini; i cosiddetti civili.

Le persone colpite dal cancro della guerra, se non soccombono sotto le bombe, cercano di curarsi come possono, mettendo in atto strategie di emergenza (emergency coping strategies) nella maggior parte dei casi negative; elemosina, lavoro minorile, indebitamento, vendita dei beni in loro possesso, che rappresentano i veri “danni collaterali” di un conflitto.

Inoltre gli stessi organismi umanitari deposti alla cura delle persone in contesti di guerra o emergenziali spesso somministrano delle terapie che non fanno altro che rendere le persone convalescenti: campi profughi durevoli nel tempo, continue distribuzioni di cibo, acqua, vestiti, generi di prima necessita,

… Se queste ultime sono di straordinaria importanza nella gestione dell’immediata contingenza, a lungo andare possono creare dipendenza in chi li riceve e determinare comportamenti deviati nelle persone preposte alla distribuzione degli aiuti stessi; molto frequenti, purtroppo, i casi di corruzione, mercato nero, truffe e anche molestie denunciate da donne che, in contesti di guerra o post-conflitto, venivano obbligate a una scelta da parte di operatori che si occupano della distribuzione di aiuti: concedere i favori sessuali richiesti o non ottenere il pacco alimentare.

Appare sempre più necessario sviluppare una cura che materializzi, nella sua pratica, la stessa radice del termine ku/kav, dal sanscrito “osservare”. Osservare quindi la situazione contingente per somministrare una cura ad hoc, che tenga conto delle specificità di quel luogo e di quel popolo; elaborando al tempo stesso modelli di sviluppo e guidando in un percorso di ripresa e autonomia le comunità colpite dalla guerra. Il presente dossier si inserisce in questo cammino, a partire dall’analisi delle coping strategies negative messe in atto dai profughi siriani, sia nel loro Paese, sia in quelli di accoglienza come Libano, Giordania, Grecia; e proponendo al tempo stesso una riflessione sullo sviluppo di una nuova forma di intervento umanitario, capace di superare i suoi stessi paradossi. Un dossier che, in occasione del triste anniversario del settimo anno di guerra in Siria, vuole fare da cassa di risonanza del messaggio di papa Francesco dello scorso 25 dicembre: ≪Possa l’amata Siria ritrovare finalmente il rispetto della dignità di ogni persona, attraverso un comune impegno a ricostruire il tessuto sociale indipendentemente dall’appartenenza etnica e religiosa≫.

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