La Spezia, marzo 2022 – Proposta pastorale 2021-22 per le comunità: AMATI E CHIAMATI “Renditi umile, forte e robusto” – “Chiamati per nome”, Sesta Lectio Is 43,1-7 – pp. 121-126

Contesto

La citazione è tratta dalla letteratura profetica, che costituisce una parte consistente della Bibbia. Il filosofo-teologo ebreo A. J. Heschel ha una suggestiva descrizione della figura del profeta: «I profeti non avevano né teorie né “idee” di Dio. Ciò che avevano era una “comprensione”, che non era il risultato di uno studio teorico […]. Il profeta potrebbe caratterizzarsi come un homo sympathetikos». Nei tempi biblici, come anche quelli odierni, i profeti partecipano al pathos, alla passione di Dio per l’uomo, per il mondo e per la storia. Per questa sim-patia essi intuiscono il cuore di Dio e sono sensibili alla dimensione divina degli avvenimenti del mondo. Appunto perché coinvolti nella corrente irresistibile dell’amore divino, essi amano profondamente il mondo e la storia, condividono la sorte dell’umanità e ne sperimentano le ansie e le gioie, le attese e le speranze. Quali “sentinelle” in mezzo al popolo, essi vegliano, scrutano i segni del tempo per scoprirvi i passi di Dio, leggono il presente storico per coglierne le prospettive eterne, s’impegnano, intrepidi, perché la sollecitudine divina venga accolta e corrisposta.

In Is 43 incontriamo un esemplare di questa parola piena di pathos divino. Questo capitolo far parte della seconda sezione – capp. 40-55 – del libro di Isaia ed è composto da un ignoto profeta, chiamato comunemente Secondo Isaia o Deutero-Isaia, vissuto nel periodo dell’esilio babilonese (587-538 a. C.). Si tratta di un discepolo spirituale del grande Isaia, che svolse il suo ministero a partire dal 740 a.C. Egli approfondisce il pensiero del maestro adattandolo alla nuova situazione storica, che presenta risvolti inediti. Si trova a parlare a gente scoraggiata e sfiduciata, delusa, che va ripetendo: «Il Signore mi ha abbandonato, il Signore mi ha dimenticato» (49,14). Ormai sono passati lunghi anni di esilio e Dio sembra non curarsi della sorte dal suo popolo. Il profeta, invece, alza la voce annunciando la speranza, anzi, la gioiosa certezza che Dio è già all’opera. Di fatti il libro inizia con queste parole incoraggianti: «Consolate, consolate il mio popolo – dice il vostro Dio» (40,1).

L’autore è un poeta raffinato: le abbondanti immagini e metafore, infatti, sono usate con abilità e il lessico è ricchissimo. Si percepisce in tutto il libretto un afflato appassionato e affascinante. Il nostra testo (43,1-7) fa parte degli oracoli di salvezza, anzi, è uno tra i più incoraggianti. Di fronte al dubbio che Dio non ami più il suo popolo e non voglia salvarlo dalle mani dei babilonesi, l’autore ribadisce con forza, che l’amore di Dio è fedele e che la salvezza c’è già. Tutto il Cap. 43 è un messaggio di speranza basata su questa convinzione. Il ritorno di Israele dall’esilio di Babilonia non è un semplice tornare alla realtà di una volta, ma è un nuovo esodo, una nuova liberazione, una nuova manifestazione dell’amore di Dio, paragonabile ad una nuova creazione: «Ecco, io faccio una cosa nuova: proprio ora germoglia, non ve ne accorgete?» (43,18). Qui ci limitiamo ad una breve riflessione sui primi versetti (1-7) di questo capitolo.

Approfondimento

  1. a) Il Signore “ti ha creato”, “ti ha plasmato” (v. 1 e 7). All’inizio (v.1) e alla fine (v.7) di questo brano il Signore si presenta come colui che ha «creato», «plasmato», «formato» Israele. Il verbo “creare” richiama l’orizzonte cosmico e i grandi gesti del Creatore: Egli stende il cielo, fissa il sole, la luna e le stelle, riempie il mare con acqua, ecc. (cf Gn 1); il “plasmare”, invece, è tipico del vasaio che modella l’argilla, dell’artista che incarna nella materia un progetto, che realizza un sogno di bellezza con le proprie mani. È un gesto delicato, raffinato, paziente, fatto con cura e con amore. È così che Dio ha plasmato e formato l’uomo e la donna (cf Gn 2,7.22; Is 64,8). Egli dichiara apertamente: «Perché tu sei prezioso ai miei occhi, perché sei degno di stima e io ti amo» (v. 4), «tu mi appartieni» (v.1).
  2. b) «Non temere!» (v.1.5). È una tra le più comuni rassicurazioni che l’uomo può esprimere nella relazione interpersonale, soprattutto quando si verifica una situazione di paura e di ansia e si vuol esprimere alla persona amata la propria partecipazione. Anche Dio usa questa forma nel dialogo con l’uomo per assicurargli la sua presenza e il suo aiuto. Egli sa quanto sia fragile l’essere umano e quanto facilmente perda la fiducia e la speranza; allora si mette al suo fianco per sostenerlo, incoraggiarlo e amarlo. L’invito a «non temere» ricorre circa ottanta volte in tutta la Sacra Scrittura, nella maggior parte dei casi attribuito a Dio o ad alcuni suoi messaggeri nell’ AT e a Gesù nel NT. Spesso quest’invito rassicurante introduce una missione importante da svolgere secondo il volere divino. È il caso di Abramo (Gn 15,1), di Mosè (Dt 1,21; 3,2), di alcuni profeti e di altri personaggi. Nel Nuovo Testamento l’invito è rivolto a Zaccaria (Lc 1,13), a Maria (Lc 1,30), a Giuseppe (Mt 1,20), ai pastori (Lc 2,10) come preludio alla rivelazione di un sorprendente progetto di Dio. Nell’intraprendere la sua predicazione Gesù chiama i discepoli alla sua sequela invitandoli in più situazioni a «non temere» (Lc 5,10). Mentre egli invia i discepoli in missione, li prepara ad affrontare senza paura le difficoltà ponendo la fiducia in Dio (Mt 10,26; Lc 12,4). «Coraggio, sono io, non temete!» (Mc 6,50); «Non temere, soltanto abbi fede» (Lc 8,50); «Alzatevi e non temete» (Mt 17,7); «Non temere, piccolo gregge» (Lc 12,32): sono parole tanto incoraggianti sulla bocca di Gesù. Negli Atti degli Apostoli anche Paolo è destinatario di questo invito per affrontare le sfide e le incertezze che accompagnano la missione evangelizzatrice (At 18,19; 27,24). Nel nostro brano Dio ripete due volte questo invito rassicurante al suo popolo: «Non temere, perché io ti ho riscattato» (v. 1), «Non temere, perché io sono con te» (v. 5). Né acque né fuoco (cf v. 2) né alcun pericolo della vita deve ormai atterrire il popolo, perché Dio gli sarà sempre presente per sostenerlo e difenderlo.
  3. c) «Ti ho chiamato per nome» (v. 1). È un’altra parola che riempie il cuore di gioia. Il nome racchiude in sé il mistero irripetibile della persona. Una volta che il nome è stato assegnato ad un neonato, accade una sorta di miracolo: quel piccolo essere umano esce dall’anonimato, può essere “chiamato”, ci si può rivolgere a lui con determinazione, ha un’identità individuale. Solo chi ha un nome acquista una personalità. Attorno al nome la persona vive un processo di costruzione e di perfezionamento di sé. Si cerca di fare onore al proprio nome, di impegnarsi ad essere ciò che esso significa. Nella comunicazione interpersonale dire il proprio nome è identificarsi, dire il nome dell’altro è identificarlo, personalizzarlo davanti a sé. Nel mondo antico conoscere il nome di una persona o di una divinità voleva dire avere un’intimità con lui, godere della sua conoscenza diretta e poter comunicare con lui in profondità. Nel racconto biblico Dio più volte dà un nome alle sue creature: Egli chiama le persone con i propri nomi. Ciò che è meraviglioso e sorprendente è che Egli assume il nome dell’uomo dentro il suo stesso nome, quando si autopresenta a Mosè come «Dio di Abramo, Dio di Isacco, Dio di Giacobbe» e aggiunge: «Questo è il mio nome per sempre; questo è il titolo con cui sarò ricordato di generazione in generazione» (Es 3,15). È per questa sua “condiscendenza” che noi veniamo coinvolti nel nome di Dio, un Dio che decide di essere sempre in nostra compagnia. È così che alla nascita di Gesù gli verrà dato il nome di «Emmanuele, che significa: Dio con noi» (Mt 1,23). Quando Dio chiama per nome vuol dire che assegna alla persona una vocazione, stabilisce un rapporto personale in vista di una missione. Il chiamato è attirato da lui; infatti Amos riconosce: «il Signore mi prese» (Am 7,15), Geremia confessa: «Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre» (Ger 20,7), Paolo di Tarso si sente conquistato, «afferrato da Cristo» (Fil 3,12). Gesù dichiarerà ai discepoli: «Vi ho chiamato amici» (Gv 15,15). Come buon pastore egli «chiama le sue pecore, ciascuna per nome» (Gv 10,3). Ogni singola persona è amata da lui come unica e inconfondibile; per ognuna egli è disposto a dare la vita. Il suo invito a rallegrarsi «perché i vostri nomi sono scritti nei cieli» (Lc 10,20) vale per tutti quelli che egli chiama alla sua sequela, in ogni tempo e ogni luogo.

Dal testo alla vita

Quanta ricchezza di significato è legato al “nome”!

- Noi siamo stati battezzati «nel nome del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo». E ogni giorno iniziamo la nostra preghiera, le nostre attività quotidiane «nel nome del Padre …» con il segno della croce.

- «Padre nostro che sei nei cieli, sia santificato il tuo nome …» cosi Gesù ci insegna a invocare il Padre, e lo facciamo molte volte al giorno.

- Il nostro nome, che è stato scelto con amore dai nostri genitori e ci accompagna per tutta la vita, è carico di buon augurio e di speranza; parla di legame con la famiglia, con gli antenati, di riferimenti con l’ambiente vitale, con la cultura, con la storia, con le tradizioni; implica responsabilità, missione, novità di futuro e un mistero personale che si schiude giorno dopo giorno. E Dio ci chiama per nome insieme con tutto ciò che ad esso è connesso.

- Gesù, il buon pastore, ci «chiama ciascuno per nome». Noi lo riconosciamo dalla “voce” (cf Gv 10,3) e non solo dalla “parola”, cioè dal contenuto preciso che ci dice. Ciò implica un ascolto continuo, una comunione sempre più profonda e vitale fino ad arrivare ad una piena sintonizzazione del cuore.

- L’immagine di Gesù buon pastore è paradigmatica per la pastorale giovanile salesiana. Nel nostro impegno educativo dovremmo poter “chiamare per nome” i giovani e aver per loro l’amore personalizzato, profondo e fattivo come quello di Gesù, espresso in Gv 10.

- Nella Bibbia molte persone vengono chiamate da Dio per nome. Anche Gesù più volte si rivolge alle persone con l’appellativo del loro nome, manifestando fiducia e affetto, suscitando stupore, producendo una mozione del cuore, affidando una missione oppure operando una trasformazione (cf Marta: Lc 10,41; Simone il fariseo: Lc 7,40; Zaccheo; Lc 19,5; Lazzaro: Gv 11,43; Filippo: Gv 14,9; Pietro: Mc 14,37; Lc 22,31; Gv 21,15-17; Saulo sulla via di Damasco: At 9,4; ecc.). In particolare rileviamo il caso di Maria di Magdala. Al mattino della risurrezione corre al sepolcro, vede Gesù, ma non lo riconosce. Quando Gesù la chiama per nome lei «si volge» (Gv 20,16), lascia il pianto e la delusione, dà le spalle al sepolcro e alla morte, si orienta verso la vita, che ora vede e riconosce. E Gesù la invia, con la missione di testimoniare e annunciare la sua risurrezione.

- La nostra “vocazione” ci ricorda che siamo “chiamati per nome”, che apparteniamo a Colui che ci ha chiamati, che siamo amati personalmente e intimamente.

- Un giorno davanti al Signore e all’assemblea dei fratelli e delle sorelle, appellate per nome e rispondendo con il nostro nome, abbiamo pronunciato la nostra professione religiosa: «Io N.N. in piena libertà mi dono interamente a te…» (Cost. FMA art. 10). Tutto il nostro cammino vocazionale verte attorno ad un nome, che si riempie sempre più di vita, di storia: il nome che ci è stato dato nel battesimo – il nome pronunciato da noi nella professione – il nome «scritto nei cieli» (Lc 10,20). È lo stesso nome, ma che cresce in ricchezza di significato, che acquista sempre più il carattere di un volto, di una vita, di una storia, di una missione.

Per pregare e condividere

Il nome è simbolo di identità personale, individuale. Dire il proprio nome è identificarsi, dire il nome dell’altro è identificarlo, personalizzarlo davanti a sé. Il desiderio di un “nome” autentico, portato con gioia e chiamato da altri con amore, vale per tutti, ma in particolare per i giovani che stanno nella fase di ricerca di identità, di costruzione di una personalità forte e sicura. La consapevolezza d’essere “chiamato per nome” dal proprio Creatore e Signore, dalle persone adulte a cui guardano con rispetto, fiducia e ammirazione è un fattore indispensabile in questo processo. Don Bosco nella Lettera da Roma, paragonando l’oratorio del 1884 a quello del 1870 ci richiama a ciò che è davvero essenziale nell’educazione: «Manca il più...». Tutto dipende da questo più: «Che i giovani non solo siano amati, ma che essi stessi conoscano di essere amati». È indispensabile un amore che “chiama per nome”, un amore sentito, personale e fattivo che arriva ad incidere profondamente nel vissuto quotidiano. «Chi sa di essere amato, ama, e chi è amato ottiene tutto, specialmente dai giovani», ribadisce don Bosco. Madre Mazzarello gli fa eco: chiede a chi ha la responsabilità nella guida delle sorelle di «studiare i naturali e saperli prendere» e insiste che «bisogna inspirare confidenza» (L 25,2). Mossa da un amore delicatamente materno e piena di fede, prega per tutte, ragazze e suore lontane e vicine, le fa «passare tutte per nome» quando si trova a parlare con il Signore (L. 33,1).