Comunque, è uno scritto prezioso: per la sua sapiente riflessione su Gesù Cristo “sommo sacerdote della nuova alleanza” si propone a noi pressoché originale, incomparabile tra gli scritti biblici del Nuovo Testamento.

Questa solenne omelia teologica ha una struttura molto elaborata.

Gli studiosi generalmente la vedono articolata in cinque parti. Eb 11,1-12,13 costituirebbe la quarta parte con delle caratteristiche peculiari anche dal punto di vista dello stile letterario. Rispetto alle tre parti precedenti, qui il vigore argomentativo dottrinale diminuisce, mentre cresce il calore dell’esortazione.

Il cap. 11 si apre con un’affermazione lapidaria: «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede» (11,1). È un avvio impegnativo, risponde alla domanda tacita: “La fede, che cos’è”? E preannuncia già un legame forte tra la fede e la speranza. Invece di sviluppare la sua tesi con una riflessione speculativa, l’autore offre una carrellata storica sull’AT in cui ripresenta molti personaggi biblici, sottolineando che hanno agito per fede: «Per fede, Abele … per fede Noè … per fede Abramo…». È una specie di genealogia della fede vissuta, una lista di personaggi illustri nella fede, simile a quella molto nota di Sir 44-50.

La conclusione di questo meraviglioso elogio può stupire non poco il lettore: «Tutti costoro, pur essendo stati approvati a causa della loro fede, non ottennero ciò che era stato loro promesso: Dio infatti per noi aveva predisposto qualcosa di meglio, affinché essi non ottenessero la perfezione senza di noi» (11,39-40). Lodevole è la fede degli antenati, eppure nessuno di loro è arrivato alla pienezza promessa. E questo perché Dio ha di fatto programmato e già «predisposto qualcosa di meglio».

La fede si apre alla speranza: è una convinzione già affermata all’inizio del cap. 1 (cf 11,1) Quel «qualcosa di meglio» predisposto da Dio che cos’è? Verrà svelato nel cap. 12. È Gesù Cristo, «colui che dà origine alla fede e la porta a compimento» (12,2). Ma se la meta misteriosa della fede e della speranza degli antenati dell’AT è Gesù, noi cristiani, che già seguiamo Gesù, verso quale meta tendiamo? Verso dove indirizziamo la nostra speranza? La risposta è ancora Gesù «ieri, oggi e per sempre» (13,8). Egli, vissuto in mezzo a noi duemila anni fa, è presente oggi, e ci attende nel futuro, ci sta davanti, ci precede, per questo «corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti, tenendo fisso lo sguardo su Gesù» (12,2).

APPROFONDIMENTO.

Un aneddoto della tradizione ebraica chassidica racconta che uno straniero andò a far visita a un rabbino e si stupì nel vederlo vivere in una sola stanza quasi senza mobili. «Rabbì, dove sono i tuoi mobili?», gli domandò il visitatore. Il rabbino rispose con un’altra domanda: «E i tuoi dove sono?». Stupito lo straniero replicò: «Che domanda! Io sono in viaggio. Non ho mobili!». Il rabbino concluse sorridendo: «Anch’io sono solo in viaggio su questa terra».

Questo aneddoto può illuminare ciò che dice Eb 11 sugli antenati nella fede e su una dimensione fondamentale dell’esistenza cristiana: la speranza è il prolungamento della fede, è la tensione del credente verso il futuro che ci attende. Di Abramo l’autore della Lettera agli Ebrei dice: «Per fede soggiornò nella terra promessa come in una regione straniera, abitando sotto le tende […]. Egli aspettava infatti la città dalle salde fondamenta, il cui architetto e costruttore è Dio stesso» (11,9-10). Arrivato alla terra promessa, Abramo non è più nomade vagante senza meta: è cittadino di una terra donatagli da Dio. Nonostante questo non cessa di camminare, di sperare, di lottare e soffrire, cercando di adeguarsi al volere di quel suo Dio ricco d’amore e di mistero. Paolo descrive magnificamente l’atteggiamento di attesa obbediente di questo grande patriarca: «Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza […]. Per la promessa di Dio non esitò con incredulità, ma si rafforzò nella fede e diede gloria a Dio, pienamente convinto che quanto egli aveva promesso era anche capace di portarlo a compimento» (Rm 4,18-22).

Alla luce della rivelazione del Nuovo Testamento l’alleanza di Dio con Abramo si rivela puntata verso una realizzazione più ampia, universale e spirituale. La terra non è solo Canaan, ma il regno dei cieli, la discendenza non è solo Isacco e le generazioni che si susseguono, ma Gesù Cristo, Figlio di Dio incarnato (cf Mt 1,1; Gal 3,16) e i popoli benedetti per mezzo di lui non sono quelli suoi contemporanei, ma tutti i popoli della terra di generazione in generazione. Gesù allude chiaramente a questo compimento quando dice ai giudei: «Abramo, vostro padre, esultò nella speranza di vedere il mio giorno; lo vide e se ne rallegrò» (Gv 8,56).

Ai suoi discepoli Gesù dice: «Beati gli occhi che vedono ciò che vedete. Io vi dico che molti profeti e re hanno voluto vedere ciò che voi guardate, ma non lo videro, e ascoltare ciò che voi ascoltate, ma non lo ascoltarono» (Lc 10,23-24). Ciò che veniva donato come promessa agli antenati nella fede nell’AT ci viene offerto come realtà sorprendente. Ora, per i cristiani il mettersi in viaggio ha una meta: il dinamismo della vita è segnato dalla sequela di Cristo.

«Corriamo con perseveranza nella corsa che ci sta davanti»: l’immagine della corsa è eloquente. Anche Paolo ama usare questo tipo di immagini provenienti dalla cultura ellenista e urbana, una cultura intrisa di competizioni sportive, di impegno ad essere fisicamente in forma, al massimo dello slancio verso la vittoria ai giochi olimpici (cf 1Cor 9,24; Fil 2,16; 1Tm 6,12; 2Tm 2,5;4-7). Nello stadio non si corre da soli, ma «circondati da tale moltitudine di testimoni» (Eb 12,1), non in competizione, ma in compagnia; così nella corsa dell’esistenza cristiana la dimensione della comunità è essenziale. Hanno corso e hanno raggiunto la meta generazioni di “testimoni” nella sequela di Cristo, ora essi dal traguardo “fanno il tifo” per noi e ci indicano le condizioni per un’efficiente corsa: evitare di appesantirsi di zavorra: «deposto tutto ciò che è di peso», tenersi agili, sottoporsi a un training disciplinato, correre «con perseveranza», soprattutto «tenendo lo sguardo fisso su Gesù».

Un altro aneddoto, tratto dagli scritti dei Padre del deserto, illustra molto bene cosa vuol dire avere lo sguardo fisso sulla meta.

Un giovane monaco andò un giorno a trovare un vecchio monaco, carico di anni e di esperienza e gli disse: «Padre mio, spiegami come mai tanti vengono alla vita monastica e tanto pochi perseverano, tanti tornano indietro». Il monaco rispose: «Vedi, succede come quando un cane ha visto la lepre. Si mette a correre dietro la lepre e abbaia forte. Altri cani sentono il cane che abbaia correndo dietro alla lepre e anch’essi si mettono a correre: sono in tanti che corrono insieme, abbaiando, però uno solo ha visto la lepre, uno solo la segue con gli occhi. E a un certo punto, uno dopo l’altro, tutti quelli che non hanno veramente visto la lepre e corrono solo perché uno l’ha vista, si stancano, si sfiancano. Colui che invece ha fissato gli occhi sulla meta in maniera personale, arriva fino in fondo e acchiappa la lepre». E diceva: «Vedi, ai monaci accade così. Soltanto quelli che hanno fissato gli occhi veramente sulla persona di Gesù Cristo, nostro Signore crocefisso, arrivano fino in fondo».

DAL TESTO ALLA VITA

  1. a) Una moltitudine di testimoni. Papa Francesco nell’esortazione apostolica Gaudete et exsultate, sotto il titolo «I santi che ci incoraggiano e ci accompagnano” cita espressamente il testo oggetto della nostra riflessione: «Nella lettera agli Ebrei si menzionano diversi testimoni che ci incoraggiano a “[correre] con perseveranza nella corsa che ci sta davanti” (12,1). Lì si parla di Abramo, di Sara, di Mosè, di Gedeone e di altri ancora (cf 11,1-12,3) e soprattutto siamo invitati a riconoscere che siamo “circondati da una moltitudine di testimoni” (12,1) che ci spronano a non fermarci lungo la strada, ci stimolano a continuare a camminare verso la meta. […] Forse la loro vita non è stata sempre perfetta, però, anche in mezzo a imperfezioni e cadute, hanno continuato ad andare avanti e sono piaciuti al Signore» (n.3). Egli procede parlando dei «santi della porta accanto», di quei santi semplici e umili che vivono vicino a noi nella vita quotidiana e sono un riflesso della presenza di Dio (n. 6-9). Dio non si fa conoscere prevalentemente mediante teorie astratte, speculazioni dottrinali o indagini accademiche, ma piuttosto attraverso persone, eventi ed esperienze vitali. La Bibbia è, infatti, piena di volti e di nomi: immette i suoi lettori in una catena di credenti creando una solidarietà forte tra le generazioni. La Bibbia unisce molte storie di fede nell’unica storia della salvezza, mette insieme molti dialoghi personali in un unico dialogo tra Dio e l’umanità. Dio stesso ama presentarsi come il Dio di qualcuno. Il suo primo biglietto di visita è «Io sono il Dio di tuo padre, il Dio di Abramo, il Dio di Isacco, il Dio di Giacobbe» (Es 3,6): un Dio di cui altri hanno fatto esperienza nel passato, un Dio creduto, amato da altri, un Dio ereditabile, tramandabile, condivisibile, un Dio da comunicare, da consegnare, da donare ad altri, un Dio da far nascere e far crescere nel cuore delle persone amate. È in questo modo che Dio viene trasmesso nel calore umano come nel caso di Rut, la quale dice a Noemi: «Il tuo Dio sarà il mio Dio» (Rt 1,16).
  2. b) Il fondamento di ciò che si spera. Viviamo in un’epoca caratterizzata da precarietà e incertezza, viviamo con poche speranze e prospettive, nutrendoci di progetti fragili a brevissima scadenza. Il futuro è l’equivalente non più di promessa, ma di incognita e di minaccia. Il filosofo I. Kant si chiedeva: «Cosa posso sperare? Che cosa mi è lecito sperare?». Molto prima di lui, Giobbe, dall’abisso del suo dolore incomprensibile lanciava quelle domande lancinanti: «I miei giorni scorrono più veloci d’una spola, svaniscono senza un filo di speranza» (Gb 7,6), «Dove è dunque, la mia speranza? Il mio bene chi lo vedrà?» (Gb 17,15). Occorre trovare un fondamento alla speranza! Eb 11,1 lo vede nella fede: «La fede è fondamento di ciò che si spera e prova di ciò che non si vede», la fede in un Dio che ama, che mantiene le sue promesse, che ha cura di tutte le sue creature. Paolo dice di Abramo: «Egli ebbe fede sperando contro ogni speranza» (Rm 4,18). Diverrà comune la famosa triade fede, speranza, carità, che contempla queste virtù cristiane sotto il profilo di un’unica vita teologale, riversata nei cuori per l’azione dello Spirito (cf Rm 5,5; 1Cor 13,13). Papa Benedetto XVI, di fronte alla situazione del mondo di oggi, esprime la ancorata convinzione sua e di tutta la Chiesa nell’enciclica Spe salvi: «Noi abbiamo bisogno delle speranze – più piccole o più grandi – che, giorno per giorno, ci mantengono in cammino. Ma senza la grande speranza, che deve superare tutto il resto, esse non bastano. Questa grande speranza può essere solo Dio, che abbraccia l’universo e che può proporci e donarci ciò che, da soli, non possiamo raggiungere. Proprio l’essere gratificato di un dono fa parte della speranza. Dio è il fondamento della speranza – non un qualsiasi dio, ma quel Dio che possiede un volto umano e che ci ha amati sino alla fine: ogni singolo e l’umanità nel suo insieme. […] Solo il suo amore ci dà la possibilità di perseverare con ogni sobrietà giorno per giorno, senza perdere lo slancio della speranza, in un mondo che, per sua natura, è imperfetto» (n. 31).

PER PREGARE E CONDIVIDERE

- L’intero filo conduttore della Rivelazione è teso verso la pienezza e la gioia futura. Le ultime parole della Bibbia sono vincolate ad un’attesa e ad un futuro bello, il cui sipario non è ancora spalancato: «Lo Spirito e la sposa dicono: “Vieni!” […] Colui che attesta queste cose dice: “Sì, vengo presto!”. Amen. Vieni, Signore Gesù» (Ap 22,17.20). Molti libri biblici, soprattutto quelli profetici si aprono con la denuncia severa del Signore, ma poi si concludono con la consolazione, con la speranza dell’intervento misericordioso e stupendo del Signore: spesso la speranza fiorisce dal peggio. Più sobriamente, ma non meno intensamente, le opere della storiografia d’Israele si chiudono su frangenti di speranza luminosa. La Bibbia è un grande serbatoio di speranza. Sappiamo attingere da questa fonte?

- Naturale è, allora, che noi cristiani abbiamo l’impegno d’essere testimoni e diffusori di speranza, come propone Pietro nella sua prima lettera: «E chi potrà farvi del male, se sarete ferventi nel bene? […] non turbatevi, ma adorate il Signore, Cristo, nei vostri cuori, pronti sempre a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi» (3,1-15).

- Don Bosco conclude il suo “Testamento spirituale” (cf MB XVII 258-259) con la citazione biblica in latino: «In te Domine, speravi, non confundar in aeternum» («Chiunque in te spera non resti deluso in eterno»: Sal 25,3; Sir 32,24). È la sintesi della sua vita che vuol vedere continuata nei suoi figli e nelle sue figlie.

Sr. Maria Ko