«Quando il Figlio dell’uomo verrà nella sua gloria, si siederà sul trono della sua gloria e saranno riunite davanti a lui tutte le genti». Gesù parla di sé alla terza persona quale Figlio dell’uomo (cf. Dn 7,13), ossia quella figura di Giudice escatologico che alla fine della storia verrà per stabilire la giustizia di Dio. La sua regalità consiste nel compiere quel giudizio che è una misura di giustizia verso tutti coloro che sulla terra sono stati vittime, privati della possibilità di una vita degna di questo nome; in questo modo Gesù porterà a compimento ciò che ha iniziato durante il suo passare tra gli uomini facendo il bene (cf. At 10,38). Il giudizio è assolutamente necessario affinché la storia abbia un senso e tutte le nostre azioni trovino la loro oggettiva verità davanti al Dio che «ama giustizia e diritto» (Sal 33,5). 

Servendosi di un’immagine tratta dal profeta Ezechiele Gesù afferma che il Figlio dell’uomo «separerà gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dai capri, e porrà le pecore alla sua destra e i capri alla sinistra» (cf. Ez 34,17). Questo giudizio, che è a un tempo universale e personale, non avviene – come potremmo attenderci – al termine di un processo: qui viene solo presentata la sentenza, perché tutta la nostra vita è il luogo di un «processo» particolarissimo. Ed è proprio per risvegliare in noi questa consapevolezza che Gesù descrive il duplice dialogo simmetrico tra il Re/Figlio dell’uomo e quanti si trovano rispettivamente alla sua destra e alla sua sinistra. Ai primi, definiti «benedetti del Padre», il Re dona in eredità il Regno con questa motivazione: «ho avuto fame e mi avete dato da mangiare, ho avuto sete e mi avete dato da bere; ero forestiero e mi avete ospitato, nudo e mi avete vestito, malato e mi avete visitato, in carcere e siete venuti a trovarmi». Per non aver fatto questo agli altri è invece riservata una sorte opposta. 

Il metro di questa separazione non è costituito da questioni morali o teologiche: no, la salvezza dipende semplicemente dall’aver o meno servito i fratelli e le sorelle, dalle relazioni di comunione con quanti siamo stati disposti a incontrare sul nostro cammino. E ciò che colpisce è lo stupore manifestato da coloro cui il Figlio dell’uomo si rivolge: «Quando ti abbiamo visto affamato… e ti abbiamo (o non ti abbiamo) servito?», cui segue la risposta decisiva: «Amen, io vi dico: ogni volta che avete fatto queste cose a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me». Sì, il povero che manca del necessario per vivere con dignità è «sacramento» di Gesù Cristo, perché con lui Cristo stesso ha voluto identificarsi (cf. 2Cor 8,9): chi serve il bisognoso serve Cristo, lo sappia o meno. 

Di più, per noi cristiani i poveri sono anche «sacramento del peccato del mondo» (Giovanni Moioli), dell’ingiustizia che regna sulla terra, e nell’atteggiamento verso di essi si misura la nostra capacità di vivere nel mondo quale corpo di Cristo. Quando infatti vediamo una persona oppressa dalla povertà, dovremmo saper interpretare questa situazione come il frutto dell’ingiustizia di cui anche noi siamo responsabili in prima persona. Da tale presa di coscienza scaturirà poi la disponibilità a farci prossimi a chi soffre per lottare contro il bisogno che lo angustia; e quando avremo operato per eliminare il bisogno, anzi mentre operiamo, ecco che il povero diventa per noi sacramento di Cristo, anche se forse lo scopriremo solo alla fine dei tempi… 

Nell’ultimo giorno tutti, cristiani e non cristiani, saremo giudicati sull’amore, e non ci sarà chiesto se non di rendere conto del servizio amoroso che avremo praticato quotidianamente verso i fratelli, soprattutto verso i più bisognosi. E così il giudizio svelerà la verità profonda della nostra vita quotidiana, il nostro vivere o meno l’amore qui e ora: «impariamo dunque a meditare su un mistero tanto grande e a servire Cristo come egli vuole essere servito» (Giovanni Crisostomo).

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