Il sacramento della Riconciliazione porta a compimento l’impegno penitenziale di ciascuno e di tutta la comunità.

Preparato dall’esame di coscienza quotidiano e ricevuto frequentemente, secondo le indicazioni della Chiesa, esso ci dona la gioia del perdono del Padre, ricostruisce la comunione fraterna e purifica le intenzioni apostoliche – «Beati voi quando vi insulteranno, vi perseguiteranno e, mentendo, diranno ogni sorta di male contro di voi per causa mia. Rallegratevi ed esultate, perché grande è la vostra ricompensa nei cieli. Così infatti, hanno perseguitato i profeti prima di voi» (Mt 3, 10-12) Nell’insieme delle beatitudini, troppo spesso, purtroppo, passa sotto silenzio la beatitudine che ha il colore del sangue: il sangue di tanti martiri, ma anche l’emozione che proviamo ogni volta che veniamo a sapere di un fratello torturato, di un popolo oppresso, di una minaccia sull’avvenire dell’umanità.

La beatitudine dei perseguitati ha una doppia valenza. Si pone in rapporto a Gesù, il Giusto perseguitato sopra ogni altro, e in Lui a tutti gli uomini che, in una maniera o nell’altra, sono torturati, non solo fisicamente, ma anche psicologicamente; violentati nella loro personalità. Così, quando la beatitudine precisa: «Beati voi che siete perseguitati per causa mia», è come se ci dischiudesse a quell’amore gemello che vede congiunti Dio e l’uomo.

Accettare di dare la vita, per mettersi al servizio di una parte dell’umanità oppressa, tiranneggiata, ridotta in schiavitù in mille diverse maniere, vuol dire testimoniare Cristo, vuol dire riconoscere nel volto dei nostri fratelli maltrattati il volto martoriato del Crocifisso. Il cristiano, desideroso di vivere oggi questa beatitudine, è dunque chiamato ad aprire il suo cuore alle dimensioni del mondo, per lottare contro tutto ciò che attenta ai diritti dell’uomo. E grazie a Dio, non mancano, ai nostri giorni, cristiani pronti a ergersi contro tutto ciò che minaccia l’avvenire dell’umanità, il carattere sacro della vita, la fraternità fra gli uomini.

Nell’epoca in cui le stesure finali dei Vangeli videro la luce, la Chiesa primitiva era già entrata in una fase di cruenta persecuzione; era quindi necessario sostenere la fede e il coraggio dei primi cristiani e ciò spiega l’importanza accordata alla beatitudine della persecuzione: essa è beatitudine del martirio. Nessuna sorpresa quindi se la sua formulazione risulta molto più sviluppata di tutte le altre. Redatta al presente, come la povertà, si schiude alla stessa rivelazione: «Vostro è il Regno dei Cieli». Si può in effetti affermare che la persecuzione è la forma estrema della povertà. Il perseguitato non soffre solamente per una privazione che viene dall’esterno, ma perché diviene oggetto di una totale spoliazione di sé.

Questo vuoto di sé, san Paolo, nella lettera ai Filippesi, lo chiama «Kenosi». Abisso di sé, che diventa ricettacolo della gloria di Dio. Abisso che Cristo ha conosciuto nella Passione. Abisso che non ha per lui il significato di voragine, di buco nero entro cui sprofondare. Nella figura del Cristo si ravvisa non soltanto il modello eccelso del giusto perseguitato, ma la fonte di gioia, nella speranza della resurrezione, poiché «Dio l’ha esaltato, dandogli un nome che è al di sopra di tutti i nomi», consacrandolo “Signore” per l’eternità. Nella sinfonia delle beatitudini, quella dei perseguitati, risuona come un inno alla gioia. Essa termina con un «Rallegratevi, siate nella gioia!». Così come la donna, una volta partorito, dimentica i dolori del parto, nella gioia di aver messo al mondo un uomo, allo stesso modo il discepolo, al di là della prova, accettata con rassegnazione, conosce quella gioia interiore di essere assimilato a Cristo crocifisso e risorto: conoscere ciò che Lui ha conosciuto. Gioia della tenacia, della ostinazione ad essere fedeli a se stessi, alle proprie convinzioni, al proprio Dio.

Tutte le forme di sofferenza che dobbiamo sopportare per restare fedeli a convinzioni e opzioni, fino all’incomprensione, ci costringono a morire, passaggio indispensabile per la risurrezione. La luce pasquale che illumina questa beatitudine le dona tutta la sua modernità, la sua attualità e ciò vale non solo per i cristiani perseguitati nei paesi ove la dittatura imperversa, ma anche per noi.

Se non vantiamo nemici nella fede, è perché ci comportiamo come tiepidi testimoni delle esigenze del Vangelo che, invece, ci vuole pronti a prendere la nostra croce. Questo linguaggio è duro: chi può intenderlo?

Allora Gesù disse ai suoi discepoli: «Se qualcuno vuol venire dietro a me rinneghi se stesso, prenda la sua croce e mi segua. Perché chi vorrà salvare la propria vita, la perderà; ma chi perderà la propria vita per causa mia, la troverà» (Mt 16,24-25).

San Paolo modifica alquanto questa sentenza: Perché a voi è stata concessa la grazia non solo di credere in Cristo, ma anche di soffrire per lui sostenendo la stessa lotta che mi avete veduto sostenere e che ora sentite dire che io sostengo (Fil 1, 29-30). Perciò mi compiaccio nelle mie infermità, negli oltraggi; nelle necessità, nelle persecuzioni nelle angosce sofferte per Cristo; quando sono debole, è allora che sono forte (2 Cor 12, 10).

Si è perseguitati nella misura in cui si ha il coraggio di andare contro alle sacre regole, nella misura in cui si sconvolgono le convenzioni, dove quelli che si adeguano hanno successo e i profeti che si rifiutano di farlo risultano perdenti. Si è perseguitati nella misura in cui ci si espone e si rischia, si ringiovanisce e si impara a morire, si guarda all’orizzonte del futuro e si fa un passo avanti.

Gesù e i suoi discepoli non propongono assolutamente di godere della persecuzione e del disprezzo, ma di liberarsi, attraverso la realizzazione delle beatitudini, dalle irresponsabilità che sono causa di tanta sofferenza nel mondo. La riconciliazione non è una debolezza, ma una forza: il vero onore dell’uomo consiste nell’arrestare la spirale della violenza, nel creare legami positivi tra gli uomini. Chi possiede una profonda umanità, chi ha imparato l’arte di stabilire liberi legami fra gli uomini, costui sa bene che non avrà molti vantaggi e molte consolazioni, ma che dovrà piuttosto subire prepotenze e soprusi. Ma sa anche di aver scelto la parte migliore, la gioia del contatto vero, dell’autentica comunicazione con l’altro, che non può dominare né possedere, ma in cui trova un amico, un fratello, un altro sé.

Nel momento stesso in cui Gesù annuncia ai dodici discepoli che i sommi sacerdoti e gli scribi «lo condanneranno a morte, lo consegneranno ai pagani perché sia schernito e flagellato e crocifisso» (Mt 20,17-19), Giacomo e Giovanni, accompagnati dalla madre, vanno a chiedergli di occupare i primi posti accanto a lui nel suo regno, suscitando le ire degli altri dieci, che fanno blocco contro i due fratelli (Mt 20,20-24). Gesù non risponde alla loro richiesta: la cosa è nelle mani dell’Abbà.

Gesù approfitta dell’incidente per ricordare che le sue prospettive, e quelle dell’Abbà, sono ben diverse da quelle dei capi e dei grandi che esercitano il loro dominio e il loro potere sulla terra: «Chi vuole diventare grande tra voi, deve essere il servo degli altri», come ho fatto io, che sono venuto a mettermi al servizio di tutti, prendendo l’ultimo posto.

L’ultimo posto di Gesù è veramente un punto estremo. Ricordiamo la frase fondamentale della predica di don Huvelin che ha sconvolto Charles de Foucauld e l’ha portato alla conversione e alla vita che sappiamo: «Gesù Cristo ha preso l’ultimo posto in modo tale che nessuno potrà mai toglierglielo». Questa frase ha dato le vertigini a un uomo come Charles de Foucauld, che aspirava con tutte le sue forze a conquistare il primo posto, sia quando, non ancora credente, voleva compiere un’esplorazione unica in Marocco, sia dopo la conversione, quando cercava di spingersi il più possibile all’ultimo posto, volendo anche in questo essere il primo. Ma qui si trovava di fronte a un limite invalicabile: Gesù, l’essere più innocente, più povero, più affamato di Dio che sia mai esistito, il Verbo che, facendosi uomo, «non aveva considerato la condizione che lo faceva uguale a Dio» (Fil 2,6), aveva conquistato l’ultimo posto per sempre.

Stare accanto a Gesù, essere con lui, lasciare per causa sua un certo tipo di esistenza per assumere lo stile di vita delle beatitudini, significa credere fondamentalmente nell’amore gratuito di Dio ed entrare nella prospettiva della gratuità, rinunciando ad agire in vista di una ricompensa. L’aveva capito bene Teresa di Lisieux, che sperava di presentarsi a Dio a mani vuote, senza cercare di fondarsi sui propri meriti per chiedere, come qualcosa di dovuto, una ricompensa da parte di Dio.

Nell’ultima beatitudine, Gesù risponde alla richiesta degli apostoli in modo piuttosto vago: «Rallegratevi in quel giorno, danzate di gioia; il vostro salario è grande nel cielo» (Lc 6,23). La ricompensa, in fondo, consiste semplicemente nell’essere riconosciuti in modo particolare da Gesù, dopo averlo riconosciuto durante la vita con le proprie scelte e la propria volontà di praticare le beatitudini.

Queste sofferenze non sono fine a se stesse. Nella sua prima lettera, Pietro fa un eccezionale commento dell’ultima beatitudine. Rivolgendosi ai cristiani, egli parla delle persecuzioni e afferma in primo luogo che sono un fatto normale: «Carissimi, non siate sorpresi per l’incendio di persecuzione che si è acceso in mezzo a voi per provarvi, come se vi accadesse qualcosa di strano» (1Pt 4,12). «Nella misura in cui partecipate alle sofferenze del Cristo, rallegratevi perché anche nella rivelazione della sua gloria, possiate rallegrarvi ed esultare. Beati voi se venite insultati per il nome di Cristo, perché lo Spirito della gloria e lo Spirito di Dio riposa su di voi» (1Pt 4,13-14). Si partecipa alle sofferenze del Cristo per «conoscere lui e la potenza della sua risurrezione», dirà Paolo (Fil 3,10). La meta è la Pasqua: «Corro diritto alla meta verso il premio che Dio ci chiama a ricevere, lassù in Cristo Gesù» (Fil 3,14).

Il premio, il salario, la ricompensa, è la vita eterna, che si conquista fin d’ora quando si ha il coraggio di perdere l’altra vita, quella che si basa sul rifiuto dell’altro. La vita eterna infatti, come dice Giovanni nelle sue lettere, comincia già su questa terra per coloro che abbandonano la logica del mondo e assumono lo stile di vita delle beatitudini. Non si possono servire due padroni: o si cerca la felicità nella «distinzione», in ciò che pone l’uomo al di sopra degli altri, oppure si segue la via indicata da Gesù. Su di essa non si trovano i fiori abituali, gli onori e le gratificazioni, ma si conoscono tuttavia molte gioie, una felicità del tutto diversa, il sapore che possono avere soltanto i rapporti veramente fraterni: «Voi piangerete e vi rattristerete, ma il mondo si rallegrerà... Ma la vostra afflizione si cambierà in gioia... Il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia» (Gv 16,20-23).

Ma c’è anche una persecuzione che viene dal di dentro: è la parte oscura, insipiente di noi, la zona di influenza negativa: potere, orgoglio, …

E c’è una persecuzione bianca, che viene dal di fuori: l’imputazione di malvagità, il distorcimento della verità, la calunnia, la diffamazione, le accuse menzognere.

“Quando vi insulteranno e mentendo” questa è la cosa più dolorosa e amara da sopportare.

Scrive infatti Haring: «Se ci impegneremo fino in fondo per la santità, la giustizia, la vera pace, ne pagheremo anche noi il prezzo come i profeti e Cristo. Tale prospettiva però, non sarà causa di frustrazioni per chi si accosta a Cristo.

Al contrario, seguiamo Cristo con tutto il cuore e sperimenteremo la vera gioia pasquale, la pace divina. Chi crede nel mistero pasquale e dice un sì fermo alla croce, potrà rendere una testimonianza gioiosa anche in mezzo alle difficoltà».

In più parti del mondo, di questo mondo di oggi così tecnicamente evoluto, cristiani, sacerdoti, religiosi, anche nostri fratelli e sorelle, sono sottoposti a privazioni per la fede, privati della libertà e anche psicologicamente annientati o stroncati da morti violente.

Sono i martiri di oggi, fasciati di silenzio, dispersi nella solitudine, o chiusi in prigioni o uccisi.

Si tratta di chiamate di privilegio, che vagliano l’autenticità della fede e dello spirito evangelico.

Tutti però, anche se in grado diverso, dobbiamo essere segnati dalla croce di Cristo, perché essa fa il cristiano. E la croce che Gesù ha chiaramente evidenziato è la persecuzione.

«Vita consacrata e persecuzione sono due cose inscindibili.»

Se il martirio cruento è una chiamata straordinaria, c’è, per quanti si dichiarano per Cristo, lo stillicidio continuo di mille piccole ferite spirituali che fiaccherebbero le energie dell’anima se non si avverasse, anche per questa comune forma di martirio, la promessa della beatitudine.

Il valore della beatitudine è quello di indirizzarci a vivere l’assoluto nel contingente, andando al di là del limite, lasciandoci anche schiacciare da esso. Usando l’espressione di Paolo, dobbiamo sentirci veramente liberi anche quando siamo incatenati.

Le catene sono la libertà di Paolo, perché testimoniano la sua scelta di Cristo. Chi ha scelto Cristo è libero, anche se è in prigione.

In quest’ottica, il «Beati i perseguitati» è la speranza della nostra vita, perché è la verità della nostra esistenza.

Il cristiano non richiede la conferma della sua vita dalla storicità, che è sempre ambigua. Come leggiamo in un testo di S. Gregorio Magno, chi sceglie Cristo non guarda alle apparenze: guarda a lui e basta!

Quel «mi rallegro» è un po’ diverso dai nostri atteggiamenti quando siamo nella tribolazione.

A volte, il nostro personalismo esagerato ci fa dimenticare il vangelo. È vero che il Concilio Vaticano II ha sottolineato il rispetto della persona, ma, se questa si pone in alternativa al vangelo, non è più autentica.

Chi accetta di realizzarsi nella fede è «persona» nel Cristo pasquale. Paolo si rallegra, perché la persecuzione non è una diminuzione dell’io, ma ne è l’autentica promozione.

Questa è la dinamica evangelica.

È molto illuminante un altro testo di Paolo: «Non siate pigri nello zelo; siate invece ferventi nello spirito, servite il Signore. Siate lieti nella speranza, forti nella tribolazione, perseveranti nella preghiera (Rm 12, 11-12).

Il cristiano nella sua vita deve essere sempre profondamente consapevole di queste realtà.

Cercando di scavare nel significato della beatitudine dei perseguitati, ci poniamo una domanda ulteriore, che è illuminante: quali sono le motivazioni in base alle quali noi ci consideriamo discepoli, ma che contemporaneamente devono essere la verifica se i nostri stati d’animo sono secondo il vangelo o secondo il nostro io?

Quel «per causa della giustizia» dobbiamo ritrovarlo attraverso l’esame delle idealità che orientano la nostra vita.

Le idealità sono fondamentalmente quelle di aver davanti il Cristo, il suo stile di vita, la sua fedeltà, la sua relazione con il Padre, la sequela, la sua imitazione: Cristo, solo Cristo, in Cristo, con Cristo, per Cristo.

Perché, qualche volta, davanti ai disagi più o meno evidenti ci ribelliamo? Perché non abbiamo fatto verità nella nostra vita, siamo troppo legati al contingente, non siamo giunti alla semplicità, non abbiamo trovato il centro unificatore.

Chi ha collocato Cristo al centro, vede solo lui. Sente le difficoltà, sia ben chiaro, ma le considera in un’altra ottica: vede Cristo Gesù che sta costruendo in lui il suo regno, lo Spirito che sta scalpellando in lui il volto del Cristo.

Questa è l’idealità di fondo su cui si costruisce la nostra storia.

È proprio questa semplificazione della nostra vita in Cristo che ci rasserena anche nella crocifissione del quotidiano.

Se poi rientriamo in noi stessi, vediamo che pochissime volte il processo di cristificazione è l’anima delle nostre situazioni storiche. Non possiamo dire che Cristo sia il nostro Tutto, quando ce la prendiamo con il primo disagio che incontriamo uscendo dalla chiesa. L’uomo che ha colto il Tutto, relativizza tutto, anzi, la persecuzione è la verità della vita, è la verità degli ideali, è la verità delle scelte di fondo della nostra storia.

La beatitudine dei perseguitati è fondata sulla fedeltà di Dio.

Spesso noi, che siamo poveri di fede, abbiamo la sensazione di dover superare con le sole nostre forze gli stati di difficoltà in cui veniamo a trovarci. Quando nessuno mi capisce, quando nessuno mi dà una mano, quando sono sempre frainteso, quando ogni mio tentativo è interpretato male, devo ritrovare la certezza che Dio è fedele, nonostante tutto, e che la prova non sarà mai superiore alle possibilità di resistenza.

Allora, fondandoci sulla fedeltà di Dio, seguendo l’ideale che è Cristo, mossi dalla sapienza che è lo Spirito, riusciamo veramente a capire quel «beati i perseguitati per causa della giustizia, perché di essi è il regno dei cieli». Allora la persecuzione diventa la verità della vita del cristiano, diventa una condivisione storica con Cristo, nello Spirito, di un cammino di eternità.

La beatitudine del patire per la fedeltà sta proprio nel rendersi conto che quanto più la fedeltà è integra, è limpida, è assoluta, tanto più diventa avvenimento di amore, di incontro con il Signore. In questa dimensione la fede si trasfigura in carità. E ciò che crediamo e ciò che aspettiamo diventa veramente ciò che possediamo e ciò che godiamo.

Questo atteggiamento è necessario assumerlo all’interno delle nostre comunità, all’interno dei nostri compiti apostolici, all’interno delle nostre esperienze di Chiesa, perché è lì che la fedeltà cresce e si consolida.

Allora saremo più preparati a fare della nostra fedeltà uno spettacolo davanti agli uomini e davanti al mondo, non importa in quale circostanza.