La pace è segno di salvezza, ma anche segno di contraddizione; la pace esige impegno verso Cristo, il quale non ci nasconde il prezzo della pace, né il sacrificio che essa comporta. E’ questo il senso delle parole di Gesù: «Pensate che io sia venuto a portare la pace sulla terra? No, vi dico, ma la divisione...» (Lc 12, 31). Sarà proprio a causa di Cristo che gli uomini saranno divisi, si schiereranno per o contro il Vangelo. La pace che Cristo è venuto a donarci, come la più felice espressione della vita, è anche la ragione per cui, a Pasqua, il Risorto non avrà altro segno di trionfo sulla morte che questa parola: «Pace a voi» (Lc 24, 36).

Gesù propone dunque ai suoi di interiorizzare i loro impulsi aggressivi; per condurli a questo non predica il sacrificio, ma mostra loro la tenerezza del Padre; non fa riferimento alla collera divina come motivo per fare penitenza, ma presenta la dolcezza dell’Abbà che invita alla gioia: la gioia dell’abbandono, come quella di un bambino fra le braccia di suo padre; la gioia del ritorno quando si è figli prodighi; la gioia della mensa, della comunione, della condivisione. Dal momento che si è tanto amati dall’Abbà, perché non accettare se stessi, e quindi anche gli altri? Questo è il fondamento evangelico della pace.

Gesù va alla radice delle cose, mette in luce le motivazioni profonde dei conflitti; non è un predicatore idealista che si accontenta di belle parole; non crede in un’età dell’oro immediata,

in una riconciliazione realizzabile dall’oggi al domani; anzi, afferma che questo genere di facile fraternità universale è inaccessibile all’uomo e che Dio solo ci farà entrare in essa un giorno, al di là della storia; è dunque uno scopo da perseguire sapendo che non sarà mai circoscritto e raggiunto; di conseguenza è ancora più necessario essere costantemente vigili, impegnati attivamente ad instaurare un po’ più di pace intorno a sé; questo richiede che si mettano in movimento la ragione e la volontà umana, con lucidità e chiaroveggenza, coraggio e audacia. Non si può, in nome del Cristo, predicare la pace dall’alto; bisogna mettere le mani nella pasta della storia e costruire la pace con impegno costante e concreto, con una lotta precisa e adeguata contro tutto ciò che dentro e intorno a noi genera divisione e violenza.

Il dopo-risurrezione è il tempo della pace donata definitivamente da Gesù; i discepoli non lo sanno ancora e continuano ad avere paura, anche se Gesù è apparso e ha detto loro: «Pace a voi!» (Lc 24,36-38). Ma ben presto la gioia prende il posto dei loro timori: essi lo riconoscono come il crocifisso, che ha chiuso per sempre il ritmo infernale delle colpe, delle vendette e delle esclusioni, purché l’uomo accolga l’amore dell’Abbà, accetti quella che Bernanos chiamava «la dolce pietà di Dio».

Di pari passo bisogna impegnarsi ad amare se stessi come una creatura che Dio ama; c’è anche un rapporto con se stessi da conquistare: un rapporto caratterizzato dalla libertà di accettarsi come si è, con le proprie risorse e le proprie potenzialità, con i propri punti forti e nello stesso tempo con la propria vulnerabilità, le proprie debolezze.

Bisogna nutrire un sereno affetto nei confronti di se stessi, bisogna essere contenti di quello che si è, della nostra vocazione, con il gusto e l’umiltà della propria storia e dei suoi limiti, del proprio corpo e del proprio carattere. È necessario coltivare una forte interiorità per vivere in pace con se stessi; chi raggiunge questa pace non ha difficoltà a rispettare l’intimo dell’altro, il suo segreto e le sue debolezze, perché ne sorride con una specie di complicità fraterna. Il nostro cuore ha bisogno di un luogo dove riposare, senza compiangersi o condannarsi; la ferita dei nostri cedimenti e delle nostre sciocchezze durerà finché vivremo; beato chi ha una vera e propria compassione di se stesso, beati coloro che non violentano se stessi, che non si divorano e non si distruggono; beati coloro che sono capaci di dire tranquillamente «sì» agli inconvenienti dell’esistere.

Chi accetta se stesso perché è consapevole di essere amato dall’Abbà, non esiterà a lavorare per stabilire rapporti veri e sempre nuovi con gli altri e fra gli altri, là dove si trova a vivere ed operare. Incontrando le persone, si sforzerà di farle uscire dall’anonimato che le isola, le inghiotte e le spinge ai conflitti; si lascerà interpellare da ogni divisione e da ogni povertà; desidererà che ogni uomo possa trovare la gioia di esistere, che ogni persona abbia il diritto di esistere e di svilupparsi, e che tutti facciano la propria piccola parte perché venga finalmente il tempo della pace; rifiuterà i blocchi e gli interdetti, creerà molteplici poli di libertà e di dialogo; cercherà di far sì che a ciascuno sia permesso di reggersi sulle proprie gambe e di essere responsabile di se stesso.

La pace è un atto costruirla., non un discorso. Non basta proclamarla, occorre crearla, instaurarla,

«Beati gli operatori di pace perché saranno chiamati figli di Dio». La pace, come valore, è vocazione di tutti e, per questo impegna noi tutti a storicizzare il messaggio evangelico. Nella sua intima realtà Cristo è una persona stabilita totalmente nella pace. Non esistono in lui le tensioni che lacerano la nostra unità, i grovigli che attentano alla nostra tranquillità e al nostro ordine interiore.

C’è un’armonia mirabile nella sua realtà di Uomo-Dio. Tutto è al suo posto, tutto è nell’ordine, tutto è orientato in maniera unitaria verso il fine.

Questa pacificazione totale di Gesù rivela che il suo rapporto con il Padre e il suo rapporto con gli uomini è un rapporto totalmente realizzato nell’amore. La ragione della pace di Cristo è anzitutto la perfezione del suo amore. L’amore che lo lega al Padre, l’amore che lo lega agli uomini fa sì che in lui ci sia l’armonizzazione totale. Anche se le sue esperienze sono profonde e lui le vive in quanto uomo, pure non gli tolgono la tranquillità neppure nei momenti più drammatici. Ci basti contemplarlo ancora una volta nelle ultime ore della sua vita. Il messaggio della pace è il messaggio pasquale proprio perché nella vittoria di Cristo sta la ragione della pace. Ma la vittoria di Cristo è data dal compimento della volontà del Padre. In questa pace il discepolo fedele a Cristo, mettendo Dio al primo posto, trova la ragione del suo ordinamento e della sua armonia, e quindi la garanzia della sua pace.

La pace che Cristo porta è il godimento di un ordine, di un’armonia che investe l’uomo prima nel suo intimo e poi nei suoi molteplici rapporti. Un’armonia a costituire la quale è presente, come presenza determinante, il Signore, il Dio della pace.

E nella misura in cui gli uomini collaborano al disegno di Dio, sono figli della pace, sono coloro che operano la pace.

Cristo è venuto in questo mondo a rivelare il progetto di Dio e a servirlo. Il suo servizio di pace è tutto in questa linea del compimento del progetto del Padre. Questo progetto divino di salvezza non fa a meno dell’uomo, ma lo riguarda e lo coinvolge. Ogni uomo, quindi, realizza la pace, nella misura in cui accetta il disegno di Dio e si libera dai suoi egoismi, dalla sua autosufficienza, dalla esaltazione del suo ego. Purtroppo, la tentazione di ciascuno di noi è di farsi la propria pace.

È chiaro allora che la dimensione fondamentale della pace è una dimensione interiore. La pace procede dal di dentro, dal cuore unificato in Dio e pronto a compiere quanto lo Spirito chiede per la realizzazione dell’uomo nuovo. La dimensione interiore della pace chiede pertanto la liberazione dall’egoismo e la disposizione obbedienziale al volere di Dio, disposizioni essenziali per un processo di pacificazione. Quando non si è tiranneggiati e sopraffatti dalle smanie del proprio egoismo ma ci si lascia guidare dalla luce della fede, dalla fedeltà amorosa alla volontà del Signore allora la pace prende possesso del nostro cuore. Allora prima di tutto dobbiamo ricercare l’interiorità, una relazione amante e obbediente con il Signore della pace.

Ogni giorno facciamo l’esperienza di quanto sia vulnerabile la nostra pace. Questo perché ci manca l’interiore compostezza e l’armonia che ci fa padroni di noi stessi, dei nostri rapporti con le persone con cui ci incontriamo e operiamo.

Quando la certezza della paternità di Dio e della sua signoria non è presente e radicata in noi, allora ci prende la paura, l’insicurezza, il ripiegamento su noi stessi, la percezione della nostra inutilità. L’aggancio personale a Dio nell’amore e nell’obbedienza, il rapporto con un Signore che è nostro Padre, ispira le nostre reazioni e i nostri comportamenti prima di ogni altra certezza e di ogni altra esperienza e diventa fondamentale per vivere nella pace interiore. Gli uomini, senza il soccorso di Dio, sono molto più facilmente promotori di guerra, di dissenso, di tensione, di inimicizia, che non portatori e operatori di pace. Fanno fatica a camminare sulla strada della verità, della giustizia, dell’amore. Così accade facilmente che il loro camminare non sia costruttivo della pace.

L’essere discepoli della verità è cammino di pace perché la verità unisce e fa liberi. Unisce perché essa stessa è una sola e per questo conduce gli uomini alla stessa realtà, alla stessa esperienza, allo stesso possesso. Ma chi è la verità? La verità è il Signore ed è dunque in lui, nostra pace, che troviamo la pienezza di senso, il desiderio di donarci senza reticenze per il Regno, a vivere in profonda sintonia d’amore con il suo cuore.

La pace diventa così un cammino di amore.

Il pacificatore è figlio di Dio per questa sintonia d’amore con Dio stesso e per questa armonizzazione tra l’opera di Dio e l’opera dell’uomo. L’opera di Dio è un’opera pacificatrice nell’amore. L’opera dell’uomo ne partecipa l’impegno, l’intenzione e l’efficacia. Abbiamo visto che Gesù, Verbo incarnato, è il prototipo del portatore di pace.

Quando Gesù ha detto: «Beati i pacifici perché saranno chiamati figli di Dio», parlava anzitutto in prima persona, parlava di se stesso. Egli appare nel mondo pacificatore e pacifico. E come tale è riconosciuto Figlio di Dio, come colui che è mandato da Dio a portare la pace.

Ha realizzato questo compito, ha portato nel mondo l’esperienza della pace e il Vangelo della pace come Figlio di Dio.

In fondo noi siamo figli di Dio perché Dio ci partecipa tutta la verità: «Questa è la vita eterna: che conoscano te, l’unico vero Dio, e colui che hai mandato, Gesù Cristo» (Gv 17,3).

La vita eterna, l’inizio della figliolanza divina, è conoscere il Padre e vivere Cristo. Fatti giusti della stessa giustizia di Dio, siamo chiamati alla santità nella carità. Verità, giustizia, carità: è l’itinerario della nostra configurazione a Cristo, il Figlio per eccellenza, è il cammino verso la beatitudine della pace. Una pace che richiede fatica. Ma quando la pace è raggiunta, diventa beatitudine. E il Signore con la beatitudine della pace ci esorta ad avere il coraggio di affrontare questa fatica ogni giorno, certi che Egli è con noi.

Il primo momento della pace è dunque il momento interiore.

Ed è per questo che diventa necessario comporre nell’ordine i nostri sentimenti disordinati, le nostre passioni contraddittorie, le nostre fantasie sconclusionate, le nostre sensibilità balorde, le nostre irrequietezze intellettuali, le irrequietezze del cuore, le irrequietezze di volontà, le irrequietezze di sensibilità.

È bello pensare che a poco a poco l’armonia della creatura con il suo Creatore cresce. Cresce l’armonia del rapporto tra il Padre che è nei cieli e i fratelli che sono quaggiù sulla terra.

La pace con i fratelli è garantita, è sollecitata, è ispirata, è nutrita dalla pace con il Signore. Anch’essa ha un suo cammino che va dalla fatica alla beatitudine. Non c’è alcun rapporto interpersonale tra uomini che non sia un vicendevole maturarsi, collocandosi a vicenda nel piano di Dio.

A volte la pace non è ricercata a livello di comunità. Si fa una selezione delle persone: alcune persone sono accettate, altre sono rifiutate. Non si usa il criterio secondo il quale tutte le persone che formano la comunità devono essere accettate. Si accettano invece quelle persone che nella comunità pensano come me, sentono come me, o si prestano a fare come dico io.

Queste situazioni non sono scandalose, evidentemente. Ma dimostrano la fatica della pace, propria di ogni esperienza comunitaria. Non ci dobbiamo illudere. Gli angelismi sono tutti più o meno illusori. Le creature umane, per costruire la pace nei loro rapporti, hanno bisogno di superarsi, di dimenticarsi, di perdersi, come ha fatto Cristo. Non ci sono altre strade.

All’interno di una comunità, la pace è sempre una misteriosa realtà, dono di Dio, che si porta avanti nella ricerca della verità, della giustizia, della carità, attraverso una continua purificazione da ciò che in noi non è vero, non è giusto, non è amore, nella trama della vita quotidiana.

Le nostre comunità non hanno bisogno di trattati di pace, perché i trattati di pace non fanno vivere una comunità. Hanno bisogno dell’esperienza della pace come dono di Dio, se vogliono veramente che la comunità diventi comunione, diventi un valore teologale. Essere donatori, non sfruttatori della pace.

Quando la pace, come beatitudine del Signore, la si intende così, ognuno di noi nella comunità non può essere una presenza che gode la pace garantita con fatica dagli altri, ma è una presenza che fa godere agli altri la pace. Finché in comunità facciamo gli utenti della pace, siamo solo parassiti. Quando siamo donatori della pace allora siamo i costruttori delle nostre comunità, gli operatori di pace. «Beati gli operatori di pace», ha detto Gesù, non gli sfruttatori della pace.

San Giovanni della Croce diceva: “Metti amore dove non c’è amore e troverai amore”. E così pure per la pace.