In questi giorni di “sospensione” si sono dati appuntamento tutti i mostri interiori che ci abitano in quanto umani: le paure per alcuni da sempre compagne manifeste, per altri solitamente sopite, nascoste sotto il tappeto delle illusioni di autoimbonimento… sono state convocate all’aperto, irrimediabilmente esposte. E così siamo nudi, nude.

Ovvero vediamo, sentiamo, abbiamo sul collo l’evidenza che è nuova eppure antica, eccezionale eppure normale: l’unica certezza, l’unica tangibile “eternità” per gli esseri umani è che… siamo precari, fragili, traballanti come quando si sta sul Tagadà. La ricordate quella giostra? Io l’ho scoperta da adolescente, nelle feste di un paese della provincia della mia città.

Una volta ho provato a salirci e, nonostante credo siano passati circa trent’anni da allora, ricordo molto bene che ne ricavai un senso di nausea fortissimo: tutto quello smottamento, quel pavimento instabile sotto i piedi, mi rivoltava lo stomaco, la testa e l’anima.

Non ci sono più andata: nella mia vita ho cercato punti fermi, certezze, terreni stabili.

Finché, alcuni anni fa, ho incontrato sul tracciato che avevo sognato e poi programmato/progettato una enorme, imprevista, perturbazione: l’irruzione del caos nella linea retta che avevo interiormente tracciato pensando al futuro mi ha gettato nella esperienza più potente per le nostre biografie, personali e professionali: l’irruenza dell’ignoto, dello sconosciuto, dello straniero/straniante che corrisponde a tutto quello che arriva senza il nostro consenso/permesso e, soprattutto, senza la nostra previsione/prefigurazione.

Questo accade continuamente, in dimensioni esteriori e interiori diverse nelle storie di ognuno, nelle vite di tutti: e questo è il tema a cui proprio un corso di “progettazione e valutazione” in ambito pedagogico è dedicato. Ovvero: cosa accade quando la vita sconvolge il nostro piano/progetto? Cosa accade quando l’obiettivo che stavamo perseguendo, così nitidamente formulato, diventa difficile, o persino impossibile, da raggiungere? Cosa accade quando il caos irrompe a franare i nostri schemi/scripts/pavimenti?

Abbiamo solo paura e la protezione è il nostro unico raggio di visione?

Oppure riusciamo a sperimentare, al cospetto del totalmente sconosciuto, anche la postura scientifica, ovvero la curiosità, l’esplorazione, la scoperta di quello che senza quell’estraneo non potremmo neppure concepire?

Uno dei testi nel programma di quest’anno è dedicato a questa interrogazione. Eppure proprio quel testo è l’unico, dei tre, che ancora non è disponibile. E proprio adesso la vita ci convoca: i mostri interiori che azzannano tutti (anche pedagogisti ed educatori) stanno adesso chiedendoci quelle “life skills” di cui tanto avete letto e studiato, con cui tanto vi abbiamo stressato a proposito dell’intreccio, che è il proprium umano, tra dimensioni tangibili e intangibili.

E però… siamo lontani. Fisicamente. Non posso, a lezione, guardarvi negli occhi e raccontarvi di come studiose e studiosi straordinari hanno mosso ricerche rivoluzionanti a proposito di rottura di paradigmi e ri-scritture quando un sistema vivente, a causa di una perturbazione, vede l’ordine con cui era vissuto fino ad allora, crashare.

Crash è una parola particolare: nei linguaggi per immagini, nei fumetti, rende immediatamente l’idea e la sensazione di una esplosione.

Crash è sinonimo persino di fine, se inteso come rottura della forma precedente.

Crash: questa parola è il compito su cui possiamo lavorare nei prossimi giorni, se lo vorrete, nell’attesa che ci giungano indicazioni istituzionali sul come procedere per le nostre lezioni.

Crash: è l’esperienza estetica che caratterizza tutta l’arte contemporanea. Pensate a un quadro di Magritte, o di Escher, o di Klee o di Kandiskji e a come rompono quello che Munari chiamava “il codice ovvio”, la nostra interiore immagine logica, ordinata, comprensibile.

Crash è dunque esperienza estetica e anche epistemica: avviene ogni qual volta il “conosciuto” non è più sufficiente per comprendere il nuovo, per supporre di poter governare presente e futuro.

E dunque eccoci qua: adesso il nostro futuro prossimo, e anche quello remoto, assomigliano più a un quadro di Pollock che a una natura morta, sembriamo piuttosto dentro una realtà – fino a poco fa per alcuni di noi inconcepibile – dove, come nei quadri di Chagall, coppie di innamorati, violinisti e agnelli non sono saldi per terra ma se ne vanno fluttuando per aria.

È una sensazione terribile: credo, seppur in orbita, assomigli al mal di mare, perché anche naufragando non fai che oscillare, e non solo fisicamente. E anche Chagall, come Escher e tutto ciò che “rompe” previsioni e programmi e progettazioni, a me ricorda… quel Tagadà.

E però, per onestà di ricercatore sistemico che osserva il reale ampliando il suo punto di osservazione, debbo anche riconoscere che su quel Tagadà, mentre io non vedevo l’ora di scendere, c’erano alcuni che, lo ricordo bene, si mettevano al centro e non solo restavano in piedi ma… riuscivano persino a ballare (c’era sempre musica mentre girava la giostra).

Perché? Come ci riuscivano?

Non cercavano di opporsi al movimento ma, anzi, lo ricevevano e lo accompagnavano. In piedi sul Tagadà cadi se cerchi di escludere il movimento, resti in piedi e balli se quel movimento lo fai diventare il tuo stesso.

Da quel basculare quei temerari traevano un ritmo che, sebbene non avevano scelto e non stavano pilotando, erano in grado di trasformare in qualcosa di molto diverso dall’essere trascinati.

Ecco, credo che questo sia l’apprendimento più potente per noi in situazione di crash: dis–apprendere il ritmo che abbiamo fino a qui potuto costruire più o meno a nostra immagine e somiglianza e… impararne uno nuovo. Come quando tante donne e tanti uomini straordinari ri-apprendono a camminare dopo un incidente: i sistemi viventi sono in grado di crashare e resuscitare se sviluppano quella flessibilità cognitiva/plasticità cerebrale con cui in aula avevo cominciato ad ammorbarvi.

Sicché le questioni di Crash hanno molto a che fare con questioni di… Creatività.

La Creatività non è la sorella scema della Conoscenza: ha un valore epistemico cruciale per la sopravvivenza biologica e per quella esistenziale.

Creativo è un sistema che si ri-scrive, un sistema che, quando arriva la perturbazione, sa abbandonare il suo progetto, la sua previsione, il suo obiettivo e riformula: e la ri–progettazione/ri–valutazione è fertile, viene dall’incontro con il reale, non dal suo rifiuto in forma di lamentazione/rassegnazione o rabbia/disperazione.

Amare la realtà adesso può sembrarci impossibile e paradossale.

Amare la realtà è profondamente controintuitivo quando il reale perturba e scombina i nostri piani/modelli/argini. Eppure proprio qui sta la metacompetenza cruciale di un progettista/valutatore: non nel saper piegare la realtà alla propria forma, né nel progettare inteso come sicurezza e nel valutare inteso come controllo.

La metacompetenza cruciale di un progettista – che, in quanto pedagogista ed educatore, è irriducibilmente appassionato di Futuro – è la medesima dello scienziato e del ricercatore: apertura, esplorazione, trasfigurazione del vincolo in possibilità, come nelle lezioni di Ceruti e Morin. Ovvero? “Ballare sul Tagadà”: trarre apprendimenti dalle perturbazioni, abbandonare l’attaccamento a ciò che, nel nostro prevedere/programmare/progettare, avevamo “mappato” ed esplorare le zone nuove da mappare, generare possibilità quando nulla ci sembra più tracciabile.

“Valutare” è capacità di pensiero critico e libero che amplia il suo raggio di visione, da zoom in a zoom out, e nell’ora del crash non cede alla logica binaria che spacca la realtà banalmente in colpevoli e assolti, tutto male e tutto bene. Un valutatore sistemico con competenza pedagogica sa che anche nella rottura, e forse spiccatamente nella rottura, possiamo aumentare in conoscenza e possibilità.

E quindi? Come vedete (come già avevate scoperto incontrandoci a lezione) non ho il dono della sintesi e ci ho messo quasi tre pagine per arrivare al punto che molti so che stanno aspettando: adesso che facciamo?

Nell’attesa di scoprirlo (attendiamo indicazioni di ateneo circa la modalità d’evolversi della nostra attività didattica), per ora ho deciso che NON vi darò compiti: ci sta già pensando la vita e, come sapete, ho molto a cuore i processi di autoregolazione e autovalutazione.

Sicché, quello che vi chiedo è, se lo vorrete, di dedicare questo tempo alla cura delle vostre competenze, grazie ai due testi che già avete possibilità di studiare, e delle vostre metacompetenze, attraverso l’esplorazione e la condivisione di come il vostro crash sta generando “ampliamenti d’arco di circuito”, come dalla lezione di Gregory Bateson.

Ovvero? Condividere tutto ciò che non ci porta alla perdita di senno e d’anima al cospetto dello sconosciuto, dello straniero/straniante ma, anzi, è in grado, persino, di insegnarci a ballare sul Tagadà: trasfigurare il caos in esplorazione, la paura in possibilità di evoluzione.

A questo appuntamento coi mostri, interiori ed esteriori, ora tutti dobbiamo partecipare, non c’è possibilità di sottrazione ad esso: ma possiamo parteciparvi nella forma identitaria particolare – personale e professionale – che la nostra Comunità universitaria ci consente insieme di esperire: progettisti/valutatori, ricercatori creativi/creatori dei nessi indissolubili tra tragedia e bellezza, capaci di identificare e tesaurizzare gli effetti collaterali persino di un evento traumatico, delicato e potente, come quello che stiamo vivendo.

Questo ho imparato, e continuo a imparare, da molte donne e molti uomini che ho incontrato, letto, le cui ricerche, scientifiche ed esistenziali, sono state esse stesse perturbazioni e crash che mi hanno offerto strumenti per ri-vedere le perturbazioni e i crash incontrati in mille forme… e tra le poche certezze che ho c’è che sono sicura che in questi giorni potrò molto impararlo da voi.

Antonia Chiara Scardicchio è docente e ricercatrice in Pedagogia Sperimentale presso l’Università degli Studi di Foggia; dal 1997 si occupa di ricerca e didattica con approccio sistemico nei contesti della formazione, dell’educazione e della cura, coniugando scienze della complessità e resilienza, epistemologia ed estetica. Nel marzo 2014 ha ricevuto il Premio Italiano di Pedagogia. È stata Ricercatrice Associata al CNRRoma. Nel gennaio 2015, con le edizioni la meridiana, Monica Filograno, Vittorio Palumbo ed Elvira Zaccagnino, ha dato vita alla prima Hope School italiana. È autrice di saggi e pubblicazioni di carattere sia scientifico che divulgativo.

Da https://www.edizionilameridiana.it/progettazione-pedagogica-in-tempi-di-crisi/