Questa attesa è ben significata dal profondo e suggestivo silenzio nel quale l’assemblea si raduna e si scioglie. La passione secondo Giovanni presenta la morte di Gesù̀ in croce come l’intronizzazione del re. Lì si rivela la gloria del Figlio di Dio. Nel prefazio I della passione del Signore si prega: «nella passione redentrice del tuo Figlio tu rinnovi l’universo e doni all’uomo il vero senso della tua gloria; nella potenza misteriosa della croce tu giudichi il mondo e fai risplendere il potere regale di Cristo crocifisso» (Messale Romano, p. 325).

In questa prospettiva gloriosa, la croce viene adorata come “trono della grazia”. Il brano della Lettera agli Ebrei (II lettura), esorta: «Accostiamoci dunque con piena fiducia al trono della grazia, per ricevere misericordia e trovare grazia ed essere aiutati al momento opportuno» (Eb 4,16). Il quarto canto del Servo del Signore di Isaia (I lettura) ci aiuta a collocare la passione e morte del Signore nella storia della salvezza e nell’agire di Dio nella storia. Dopo la Pasqua, negli Atti degli Apostoli, l’eunuco funzionario di Candace sarà̀ aiutato da Filippo a leggere un passaggio di questo canto di Isaia (Is 53,7-8; At 8,32-33) in riferimento a Gesù̀.

Riflessione

Con ingiusta condanna. Il quarto carme del Servo del Signore ci guida nel cogliere gli elementi di fondo dell’evento della passione e morte del Signore, a partire dall’esperienza di questo personaggio misterioso di cui il profeta canta. Innanzi tutto, dall’esperienza del protagonista del canto emerge la prima caratteristica che ritroveremo in Gesù̀, quella della giustizia. Il Servo del Signore è un uomo giusto al quale viene inflitta una condanna ingiusta: «con oppressione e ingiusta sentenza fu tolto di mezzo» (Is 52,8). È un primo tratto indispensabile per cogliere il senso della passione di Gesù̀. Egli è, come il Servo del Signore, un uomo giusto che per la sua giustizia viene condannato e tolto di mezzo. La sua morte quindi non può̀ essere in alcun modo “spiritualizzata”, non la si può̀ semplicemente accettare come volontà̀ di Dio, dal momento che è e rimane una ingiustizia. È la sorte del giusto nella storia dell’umanità̀! C’è un passo del Libro della Sapienza che dice bene questo aspetto. Dicono gli empi: «Tendiamo insidie al giusto che per noi è d’incomodo. (...) È diventato per noi una condanna dei nostri pensieri; ci è insopportabile solo al vederlo» (Sap 2,12-14). La passione e morte di Gesù̀, come quella del Servo del Signore, è quindi innanzitutto una ingiustizia, mentre colui che subisce questa sorte si presenta come giusto e retto.

Mite e libero. Un secondo aspetto è il modo di affrontare la situazione ingiusta nella quale il Servo si viene a trovare in un mondo nel quale l’ingiustizia si impone con prepotenza. Il Servo del Signore, come Gesù̀ davanti ai suoi accusatori, non risponde con gli stessi mezzi violenti. Egli è mite, come coloro che sono stati detti felici nelle beatitudini (Mt 5,5). Del Servo Isaia dice: «maltrattato, si lasciò umiliare e non aprì la sua bocca» (Is 52,7). Il giusto ingiustamente condannato affida a Dio la sua difesa e non assume gli stessi mezzi dei suoi accusatori, ma anche nell’ingiustizia rimane giusto. Un altro elemento importante che emerge nel modo in cui il Servo vive la situazione nella quale si trova, che nel contesto del Triduo è già̀ emerso nei testi biblici del Giovedì̀ santo, è la sua libertà. Sembrerebbe che in tutti i fatti che vengono narrati il Servo sia unicamente una vittima in balia dei suoi nemici. In realtà̀ ciò̀ che avviene è frutto di una sua libera scelta: «ha spogliato se stesso fino alla morte» (Is 53,12). Il Servo non affronta le vicende della sua vita con rassegnazione e passivamente, ma come protagonista che tiene in mano la sua esistenza e non se la lascia “rubare” e sottrarre da coloro che attentano alla sua vita. È lui che compie l’azione di spogliare se stesso fino alla morte. Questo aspetto emerge molto chiaramente nel racconto della passione secondo Giovanni: nel testo giovanneo, Gesù̀ è “signore” di ciò̀ che accade. Le azioni esterne sembrano affermare che lui è in balia degli altri, ma l’evangelista ci mostra come in realtà̀ sia lui il “padrone” della situazione. Basta pensare al dialogo con Pilato (Gv 18,28-38) o all’azione di affidare la Madre-Chiesa al discepolo amato ai piedi della croce. Mentre lo Sposo muore egli stesso dà una discendenza alla Madre-Chiesa: «Donna, ecco tuo Figlio!» (Gv 19,26).

Avrà̀ una discendenza. Sempre sulla linea di cogliere come il Servo del Signore vive la passione e la morte possiamo vedere come il testo legga la sua vicenda come dono di sé per gli altri. È un’idea che ritorna con insistenza nel testo: «Egli è stato trafitto per le nostre colpe, schiacciato per le nostre iniquità̀» (Is 53, 5). Inoltre il profeta aggiunge: «Quando offrirà̀ se stesso in sacrificio di riparazione, vedrà̀ una discendenza, vivrà̀ a lungo, si compirà̀ per mezzo suo la volontà̀ del Signore» (Is 53,10). Si parla apertamente della morte del servo come “offerta di se stesso”. La morte del Servo, vissuta nella piena libertà, non è quindi fine a se stessa, non è un atto eroico che pone il servo su un piedistallo di gloria, ma è un gesto d’amore. La libertà nelle vicende del Servo è legata all’amore per il popolo, per gli altri. Per questo il Servo avrà̀ una discendenza perché́ egli vive la sua vita per gli altri. Possiamo proiettare anche quest’aspetto sulla vicenda della passione di Gesù̀. Anche lui, signore di ciò̀ che gli accade, non si presenta come un eroe, che muore unicamente per coerenza con le proprie convinzioni. Se fosse così, gli stessi suoi discepoli non sarebbero altro che i difensori della sua “causa”. Gesù̀ vive sì la sua passione nella libertà, ma per amore dei suoi. Questo aspetto è già̀ emerso nell’episodio della lavanda dei piedi, che si apre proprio con l’affermazione dell’amore di Gesù̀ per i suoi discepoli e per l’umanità̀ fino alla fine (Gv 13,1). È significativo che del Servo si dica che il motivo per cui egli avrà̀ una discendenza sta nel fatto che abbia offerto la sua vita. Anche nella morte di Gesù̀ in croce nel racconto giovanneo, la morte che Gesù̀ affronta per amore e nella libertà è fonte di vita. Pensiamo al sangue e all’acqua che escono dal costato di Gesù̀ morto in croce: Giovanni stesso interpreta questi elementi come fonte di vita. Basta pensare al passo della Prima Lettera di Giovanni dove si afferma: «Egli è colui che è venuto con acqua e sangue, Gesù̀ Cristo; non con l’acqua soltanto, ma con l’acqua e con il sangue. Ed è lo Spirito che dà testimonianza, perché́ lo Spirito è la verità̀» (1Gv 5,6). Inoltre, il quarto evangelista colloca il dono dello Spirito proprio nel momento in cui Gesù̀ dona la sua vita in croce: «chinato il capo, consegnò lo Spirito» (Gv 19,30). Il fatto che Giovanni collochi il dono dello Spirito mentre Gesù̀ dona la sua vita in croce, crea un legame tra dono di sé e “discendenza”, proprio come accade per il Servo del Signore. Nel Vangelo di Giovanni abbiamo già̀ trovato questo annuncio nell’immagine del seme di grano: «In verità̀, in verità̀ io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto» (Gv 12,24). In realtà̀ qui sta il cuore dell’annuncio evangelico: la vita si acquista vivendola come dono e non trattenendola per sé!

Vedranno un fatto mai a essi raccontato. All’inizio del carme si afferma che nell’esistenza del Servo assistiamo ad un fatto mai raccontato (Is 52,15). Nell’esistenza di Gesù̀ e nella sua passione e morte possiamo contemplare questo fatto mai visto: sul volto sfigurato del Servo del Signore, il volto dell’uomo come Dio lo ha sognato e pensato. Per questo anche noi oggi possiamo accostarci con piena fiducia al trono della grazia (II lettura), «per ricevere misericordia e trovare grazia» (Eb 4,16). Ascoltare la proclamazione della Passione del Signore non è uno sterile ricordo. Oggi la passione del Signore continua nel suo corpo, perché́ con lui sepolti possiamo risorgere insieme a lui. Di fronte alla croce, la Chiesa comprende la sua vita alla luce di Colui che ha tanto amato il mondo da dare il suo unigenito Figlio.