L’immagine del puro di cuore è una specie di realtà ideale. Il puro di cuore è uno spirito libero da ogni egoismo, da ogni superbia, da ogni vanità. Nella Sacra Scrittura il termine cuore, a differenza del nostro linguaggio corrente, ha un valore plenario. È un po’ la dimensione interiore dell’uomo. L’uomo nella sua interiorità, nella sua visione della vita. E l’interiorità dell’uomo tante volte non è inquinata dal di fuori, ma inquinata dal di dentro. Pensiamo alle radici della nostra superbia. Non ne possiamo dare la colpa a nessuno. Se sono superbo lo sono io. Inutile andare a cercare chi mi ha fatto superbo. Se sono egoista, presuntuoso, lo sono io, dentro. Queste contaminazioni profonde e radicali dell’essere sono il contrario della purezza del cuore nell’accezione biblica e in modo particolare nell’accezione della beatitudine di Gesù: «Beati i puri di cuore perché vedranno Dio».

Come concepire questa purezza del cuore? Molte sono le qualità di un cuore puro: limpidezza di affetti, trasparenza di relazioni umane, fedeltà alla parola data, lealtà verso gli impegni, spontaneità di comportamento, chiarezza di sguardo, una naturale attitudine a concedere fiducia; in una parola, verità genuina come se fosse appena spuntata, nella freschezza del primo mattino del mondo, verità nuda di colui che cammina disarmato, senza scudo. La purezza di cuore partecipa di tutto questo, e principalmente deve essere concepita come verità di ciò che si è «dentro». È beatitudine della vita interiore. Ma, poiché l’uomo è essenzialmente un essere sociale, questa vita interiore, per quanto «nascosta» essa sia, possiede una dimensione pubblica. Questa verità, che si porta dentro come un tesoro nascosto, si esprime attraverso la rettitudine della vita, nella conformità tra ciò che si è nel profondo e ciò che appare. La purezza di cuore, trasparente nella relazione con gli altri, è beatitudine dell’autenticità di vita. La purezza di cuore esige che le motivazioni che portano ad agire vengano verificate.

Tutto ciò che si rivela volontà di potenza e di dominio, attrattiva di guadagno, avvelena il cuore. La purezza di cuore, definito tesoro di verità custodito dentro di noi, incita a dire la verità. Il cuore puro è quello del profeta che denuncia a prezzo della vita ogni violazione. Ma nella vita di tutti i giorni non sempre sappiamo con chiarezza se si debba o no dire la verità. Non sempre la verità va detta. D’altra parte, in nome della purezza di cuore, non possiamo diventare cavalieri erranti, pronti a correggere abusi e a riformare la società, col rischio, in quanto privi della più elementare psicologia, di danneggiare qualcuno. La purezza di cuore è beatitudine della coerenza di vita incarnata negli atti e nel medesimo tempo non limitata a questi atti. La purezza di cuore può essere sincera a livello delle intenzioni e contraddetta nei fatti. Può essere vissuta in situazioni conflittuali dalle quali non si può più uscire e che occorre assumersi al meglio. La purezza di cuore è un affare tra Dio e l’uomo, nell’intimità di ciò che egli ha di unico e di segreto. Non ritiene opportuno partire da ciò che gli altri percepiscono, bensì da ciò che Dio vede: Lui solo scruta le reni e i cuori. Il Salmo 18,25 ce lo conferma: «Il Signore mi rende secondo la mia giustizia, secondo l’innocenza delle mie mani davanti ai suoi occhi». I cuori puri sono beati perché vedranno Dio, ma non si dimentichi che Dio già li vede e li ama per quello che sono, non certo impeccabili, ma in via di conversione. La purezza di cuore non è nè impeccabilità nè acquisizione statica e definitiva. Nelle acque mosse delle nostre esistenze sballottate, essere beati della promessa di vedere Dio vuol dire apprendere a guardarsi nello sguardo d’amore che Dio rivolge su di noi. Ciascuno riconosca la sua fragilità, fatta di sincero desiderio di purezza, in mezzo alle torbide cose della vita. Ciascuno riconosca questa ambiguità, non con la tristezza di un cuore oppresso, ma con la gioiosa certezza che Dio è sorgente purificatrice. «Lavami ed io sarò più bianco della neve», grida il Salmista (Sal 50, 9).

Il cuore puro non è un cuore preservato. Questa purezza esige combattività e coraggio per resistere alle tempeste dell’esistenza e alle sollecitazioni di tanti compromessi. Gesù, per tutta la durata della sua vita, ha vissuto questa purezza facendo sì che la misericordia prorompesse in una libertà assoluta, fino al punto che libertà di cuore e purezza di cuore divenissero simili o uguali. Possiamo immaginare quale rivoluzione culturale le beatitudini scatenarono nel contesto legalistico dell’epoca. L’essenziale dunque è avere il cuore pulito, non le mani. «Cuore» e «mani», per un giudeo, rappresentano il pensiero e l’azione; e l’ipocrisia sta nel dissociare l’uno dall’altra. Gesù tuttavia non insiste sul cuore, sulla purezza delle intenzioni e delle motivazioni, a scapito dell’azione; anzi, egli chiede esplicitamente di agire, ma per lui l’azione non consiste nell’osservare le prescrizioni rituali, nel lavarsi le mani per sentirsi a posto e non avere più nulla da fare per gli altri. Puri di cuore sono quegli uomini e quelle donne che sono incapaci di ipocrisia, che fanno e dicono ciò che pensano, e pensano ciò che dicono e ciò che fanno.

Sarebbero quelle persone che hanno una loro silenziosa fierezza, che non vendono la propria dignità, che danno le dimissioni quando si trovano di fronte a qualcosa che non possono accettare, che non si curano delle onorificenze con cui si cerca di comprarli. Sarebbero quelle persone che con calma si rifiutano di tacere, che non hanno paura della verità nonostante le difficoltà a cui vanno incontro dicendola, fino a rischiare a volte anche la propria vita.

«Possono uccidere me, ma non possono uccidere la verità», ha detto mons. Romero nella sua ultima predica. Sarebbero quelli che sanno dire di no, che mettono in luce le manovre segrete e le macchinazioni tortuose, che quando una cosa è scandalosa dicono che è scandalosa, non per compiere un’azione di disturbo fine a se stessa, e neppure per ottenere una vittoria personale, ma semplicemente per mettere in crisi le idee preconcette e alienanti e per far avanzare di un passo la libertà quando e dove ciò è possibile.

Ma qual è l’itinerario della purezza del cuore? Sembra che tutto consista nel liberare la nostra vita dai vari inquinamenti a cui è esposta prima dal di dentro e poi dal di fuori. Quindi un impegno profondamente ascetico, disciplinare, che mette ordine nei nostri comportamenti, nei nostri pensieri, nei nostri sentimenti, nei nostri giudizi, nei nostri desideri e, a poco a poco, attraverso una intensa purificazione, riconduce a limpidezza tutte le situazioni anomale che la nostra vita presenta. Occorre anche la piena docilità e disponibilità all’azione di Colui che solo ci può purificare e liberare dai nostri inquinamenti. Siamo anche qui nella logica della salvezza. Se è vero che solo il Signore ci può salvare e che non ci salviamo da soli, è altrettanto vero che solo lui ci può purificare e che non ci purifichiamo con le sole nostre forze. E allora la nostra non è soltanto una scelta ascetica, ma è anche una scelta teologale. La purificazione del cuore è prima di tutto iniziativa di Dio. E la prima iniziativa di Dio è renderci capaci di vederlo e di ascoltare la sua parola, attraverso la fede.

«Beati i puri di cuore perché vedranno Dio». La visione di Dio non è un valore periferico o aggiuntivo alla vita dell’uomo. È un valore determinante, che le dà significato. Oggi si ricordano frequentemente le parole di sant’Ireneo: «La gloria di Dio è l’uomo vivente. La vita dell’uomo è la visione di Dio». Per renderci conto di questo, basta pensare al fatto che l’uomo è creato ad immagine e somiglianza di Dio. Essere immagine di Dio implica un rapporto visivo, rivelativo, tra ciò che l’immagine è e ciò che significa. Se l’uomo è l’immagine viva del Dio vivo – ecco il rapporto tra visione e gloria – l’uomo è nato per vedere Dio, per specchiarsi in lui, per scoprirsi in Dio. L’itinerario della vita dell’uomo è il maturare verso questo momento definitivo, in cui la visione di Dio sarà consumata e sarà consumata la partecipazione dell’uomo alla gloria di Dio. A questa luce, vedere Dio per l’uomo non è cosa che si possa rimettere alla fine dell’esistenza come un epilogo che si determina al di fuori e al di là della trama quotidiana della vita. Si diventa veggenti giorno per giorno. Potremmo dire che la storia del cieco nato è la nostra storia. Incontrando Cristo, a poco a poco vediamo, a poco a poco maturiamo nel vedere. Al cieco nato Gesù chiede: «Credi nel Messia?». «E chi è – risponde – perché io creda in lui?». E Gesù si rivela: «Sono io che ti parlo». «Credo, Signore!»: lo vede e crede (Gv 9,1-38). Questi sono momenti mirabili, momenti culminanti nell’esperienza del vedere Dio. Ma il vedere Dio è qualche cosa di continuo nella vita dell’uomo.

Vedere Dio nelle creature. La capacità di leggere, di percepire questo annunzio è la prima esperienza forte e determinante del puro di cuore. Chi non è puro di cuore, attraverso le pastoie e i legami del suo egoismo, nelle creature non vede altro che il loro essere. E si affoga tanto dentro che addirittura esse diventano una specie di diaframma tra lui e Dio. Al contrario, chi ha il cuore puro vede le cose luminose: la creazione annunzia il Signore; le stelle hanno una voce, i fiori hanno una voce. Lo spettacolo della creazione è meraviglia nel senso profondo della parola. Lo stupore della creatura limpida davanti alle meraviglie della creazione è uno stupore contemplativo, che intravede il Signore al di là dei veli pesanti. Un altro momento di questo vedere Dio, di cui la beatitudine parla, è la contemplazione di quella particolare creatura che è l’uomo. Viviamo in un tipo di società dove l’uomo è il concorrente dell’uomo. In questa società, tutta regolamentata e dominata dall’immanentismo e dal materialismo, il rapporto dell’uomo con l’uomo è fondamentalmente una concorrenza. Perciò un rapporto di inimicizia. Quando le cose si vedono così, la visione dell’uomo non porta certo alla visione di Dio! Ma quando c’è il cuore puro e lo spirito limpido, l’uomo, immagine di Dio, diventa come trasparente. E vedendo l’uomo io vedo Dio. Bisogna avere questa capacità di scoprire nell’uomo la gloria di Dio. Una specie di dimensione di infinito che caratterizza l’uomo: l’esperienza di Dio. È anche la capacità di scoprire l’uomo come spazio del proprio incontro, come colui nel quale la mia identità personale si verifica, si ritrova. La dignità dell’uomo allora risalta e il rispetto dell’uomo si fa grande, l’accettazione dell’uomo è senza condizioni e l’ascolto dell’uomo diventa quasi religioso. Soprattutto, poi, l’uomo non è mai strumentalizzato. Nella misura in cui ho il cuore puro, vedo Dio e vedendo Dio nell’uomo mi guardo bene dallo strumentalizzarlo secondo i miei interessi. Da questa visione dell’uomo emerge una rivelazione di Dio. Attraverso l’uomo riesco a capire che cosa vuole dire la comunicazione della verità. Attraverso l’uomo sperimento la comunicazione dell’amore. Nella misura in cui entro in questa esperienza, vedo i riflessi di Dio nel pensiero e nel cuore dell’uomo. Abissi nei quali ci si perde, specialmente quando si sanno guardare nella visione soprannaturale della fede. E allora il rispetto, l’accoglimento, il dialogo, l’ascolto, l’amore, non costituiscono soltanto piccole esperienze episodiche dove il nostro tornaconto si mescola un po’ con la stima degli altri. Alimentano esperienze che scavano nella vita, dilatano gli spazi interiori. Si capisce allora che l’uomo, proprio perché uomo, è chiamato ad essere umanità. E l’umanità non è l’annullamento delle persone nella informe massa della moltitudine. È invece l’armonia mirabile delle persone che si accettano, si conoscono e vivono in una comunione che adombra un’altra comunione: quella con Dio attraverso la persona di Gesù benedetto. Non è semplice, quando non c’è il cuore puro e lo spirito illimpidito, questa visione di Dio attraverso l’uomo. Anche perché, per nostra disgrazia, ognuno di noi sa essere maschera. Sa essere maschera di Dio, ma anche maschera dell’uomo. Un terzo momento della visione di Dio a cui si riferisce la beatitudine della purezza del cuore è la contemplazione dell’Uomo-Dio, Gesù Cristo. Qui entriamo più direttamente nella visione di fede. Gesù è la rivelazione del Padre attraverso l’incarnazione, cioè attraverso l’assunzione della natura umana. In Gesù l’umanità diventa sacramento di rivelazione, diventa lo spazio nel quale Dio si rivela all’uomo. Una umanità resa rivelazione. Allora, per me, vedere Dio significa anche vedere Cristo. «Chi vede me vede il Padre» (Gv 14,9). Questa parola detta da Gesù a Filippo noi la ripetiamo spesso. Ma fino a che punto è recepita dalla nostra esperienza? Come sappiamo ricevere l’immagine del Padre che è Gesù vero uomo? Il nostro interesse per la persona di Gesù è mescolato ad infinite curiosità storiche, esegetiche, eccetera, che forse non ci permettono di fissare lo sguardo nella semplice contemplazione del suo volto. Forse non abbiamo abbastanza recepito la lezione che Cristo ci dà sul modo di guardarlo. Presentandosi agli apostoli e alle donne, dopo la risurrezione, Gesù mostrava le mani aperte dai chiodi e il costato squarciato dalla lancia. È nella visione di quest’uomo crocifisso la visione di Dio. È nella contemplazione e nell’accettazione di quest’uomo, macerato dalla morte, la rivelazione del Padre. Gli apostoli hanno veduto Gesù sul Tabor, ma non hanno capito. Hanno capito dopo averlo visto crocifisso e risuscitato dai morti, coi segni della passione e della risurrezione. È questo anche per noi l’itinerario del vedere Dio: leggere l’immagine sostanziale del Padre scritta nella realtà di una natura umana. Per questo il nostro incontro con Cristo deve diventare sempre più interiore, sempre più profondo, nella convinzione che non si finisce mai di penetrare in questo abisso e non si finisce mai di scoprire il mistero personale di Dio nella umanità di Cristo, che ne è il sacramento di rivelazione. Tutta la spiritualità della incarnazione in fondo obbedisce a questa logica: il Verbo incarnato come messaggio, come sacramento di visione, di rivelazione. La nostra scelta della purezza come condizione di vita è determinante per l’intelligenza amorosa della persona di Gesù. E l’intimità con lui diventa tanto più naturale, spontanea, quanto più il nostro cuore si illimpidisce. Attraverso una continua purificazione interiore, noi viviamo scoprendolo sempre. Gesù è la persona che conosciamo da sempre e di cui facciamo la scoperta ogni giorno, senza finire mai. È il volto più antico che ha illuminato la nostra vita ed è ancora il volto nuovo che aspettiamo di vedere ogni giorno. È sempre lui, questo mistero inesauribile che dilaga nella nostra vita come un fiume di luce, come un fiume di vita eterna, che noi ci rendiamo sempre più capaci di ricevere. I Santi talvolta sono arrivati a dire che non avevano mai creduto di essere capaci di fare nella loro vita tanto spazio alla luce che viene da Cristo. Prendiamo coscienza che Gesù è la presenza che ci dilata e che ci ridimensiona in misure di infinità e di eternità.

Il bisogno di vedere Dio è un bisogno formidabile. È un logorio interiore, che mentre consuma vivifica. Veramente fa maturare e accelera lo spogliarsi dall’uomo vecchio e il sorgere dell’uomo nuovo. Il bisogno di vedere Dio! «Signore, finalmente è venuta l’ora di vederci». Queste parole di santa Teresa, dette così, semplicemente, al momento della morte, ci danno il significato della morte e il significato della vita. Finalmente è giunta l’ora di vederci: come il rompersi di un tenue velo al di là del quale c’è lo splendore del Dio vivente. L’immagine del velo che si rompe e dell’incontro sfolgorante con il volto di Dio è di san Giovanni della Croce. Nella Fiamma viva, parlando della morte dell’anima totalmente purificata, pura e vuota, il Santo mette sulle labbra di questa creatura trasfigurata: «Rompi la tela al dolce incontro». Lo spezzarsi della tela, il rompersi del velo, oltre il quale c’è la visione di Dio. Quando la vita costruisce la sua coerenza, la logica dei suoi giorni su questa istanza e su questa aspettativa, noi siamo dentro la beatitudine del Signore. Perché la beatitudine non sta soltanto nel momento in cui vedremo Dio com’è, a faccia a faccia. Traboccherà nella nostra vita, man mano che il nostro cuore diventerà limpido, la beatitudine dell’aspettare il volto di Dio, la beatitudine del desiderare il volto del Signore e di incontrarlo in tutta la sua sfolgorante realtà. Quando una persona entra veramente in questo mistero, la parola beatitudine non è più applicabile ad altro, non ha più senso per altro, è tutta esaurita in questa inesprimibile esperienza spirituale. E noi siamo chiamati ad essere questi beati. Nella misura in cui siamo beati così, la nostra presenza in mezzo agli uomini diventa un annunzio, diventa un grido. Non saremo confusi nella massa anonima e opaca, ma saremo delle presenze che gridano e annunziano il Signore. Allora la nostra beatitudine diventerà essa stessa principio della beatitudine degli altri. Se noi religiosi fossimo capaci di essere beati così, cosa significheremmo in mezzo alla nostra gente! Ci domandiamo perché mai la gente non ci capisce, perché la gente non ci segue, perché la gente non ci crede, perché per la gente non significhiamo nulla. E se il motivo fosse il nostro non essere beati della visione del Signore? Quando i discepoli di Emmaus videro il Signore – e lo videro non quando lo incontrarono per la strada, ma quando lo riconobbero allo spezzare del pane – capirono anche se stessi, fino in fondo. Erano un groviglio di sentimenti, di esperienze interiori, in quel momento. Ma, dopo aver visto il Signore, si lessero dentro come su un libro aperto. «Non ci ardeva forse il cuore nel petto...?» (Lc 24,32). È questo il nostro urgente itinerario di conversione che si fa unificazione e trasparenza del cuore. Il nostro itinerario è camminare verso l’OREB. Ma per vedere Dio abbiamo bisogno che Egli ci visiti con la forza del suo silenzio e renda il nostro cuore puro, docile, libero, giusto, indifeso, amante della verità, innamorato. Secondo S. Gregorio questa beatitudine diventa il manifesto dell’intero impegno cristiano della conversione. “Se riuscirai ad eliminare con una vita diligente la cattiveria che ti si è fermata nel cuore, esploderà da te la luce della bellezza divina e l’uomo interiore che il Signore definisce CUORE, ricupererà di nuovo la sua somiglianza con Dio. Il puro di cuore diventa beato perché guardando la propria immagine vede l’immagine pura di Dio presente in lui. Quando dunque il tuo pensiero sarà libero da ogni tipo di cattiveria e di passionalità allora sarai beato per l’acutezza dello sguardo perché, avendo compreso ciò che resta invisibile e avendo purificato gli occhi del tuo cuore, contemplerai il Signore nella serenità del cuore”. In questo testo di S. Gregorio si fonda quella che più tardi sarà chiamata la “esperienza esicasta della preghiera del cuore”. “Entrare in comunione con Dio è possibile, dice S. Gregorio, solo se ci lasceremo ammaestrare dalla Parola di Dio. Sono proprio le parole evangeliche a creare quella purezza di cuore che ci introduce alla comunione con Dio e alla visione beatifica. In ciascuno degli insegnamenti evangelici troverai la parola incisiva che, come un aratro, sradicherà le radici del peccato dalla profondità del cuore purificandoti così dai suoi frutti spinosi”. Il puro di cuore è libero da tutto ciò che può possederlo, non è trascinato or qui or là dalla molteplicità dei propri desideri e delle proprie intenzioni. È tutto intento a guardare alla volontà di Dio. È a questo livello che si realizza la contemplazione. Il vero ostacolo è la molteplicità dei desideri e sovente ha paura di lasciarsi purificare. La contemplazione aiuta il discepolo a eliminare ciò che è mondano in noi per concentrare il cuore su Dio.