Se non hai conosciuto Dio, non è possibile che si muova in te il suo amore. Il cuore misericordioso è l’incendio del cuore per ogni creatura”. Lasciarsi abbracciare dalla misericordia è l’invito che Papa Francesco fa ad ogni credente ogni giorno. Dopo aver fatto esperienza della sua misericordia e dopo aver ricevuto il perdono di Dio, diventiamo a nostra volta “misericordia”, diventiamo sempre più simili a Lui. Il brano che papa Francesco ha preso ad esempio per spiegare ai parroci di Roma, il 6 marzo 2014, cosa voglia dire veramente essere misericordiosi – accompagnare, farsi vicino, avere misericordia – è stata la parabola del Buon Samaritano.

La vita fraterna può essere vissuta come una vera e propria palestra di misericordia. Esercitarsi nel voler bene alle persone che vivono accanto a noi, che incontriamo nella quotidianità ci aiuta a sviluppare in noi le virtù necessarie per relazionarci in modo più caritatevole, più evangelico, più umano. Il contatto con persone ricche di doti ma anche di difetti, con differenze di età e di vedute, ciascuno con la sua storia e le sue ferite, può portare a due esiti: il primo è l’indifferenza, per cui pur di evitare gli attriti del nostro carattere, delle nostre visioni o ideologie si preferisce aumentare le distanze ed ovattarle con una falsa carità che in realtà copre solo il nostro desiderio di non entrare in relazione con l’altro. L’altro esito, molto positivo per la crescita delle nostre relazioni, è una vita in cui le differenze sono vissute con armonia. Non è una cosa che viene spontanea, ma poiché la misericordia è relazione, bisogna proprio impegnarsi per vivere in pienezza la misericordia. È vero che per smussare le asperità sono necessarie delle abrasioni, e come i sassi del fiume diventano lisci a forza di rotolare e di sfregarsi, a volte anche la nostra vita personale e comunitaria richiede delle discussioni non facili, ma fatte in verità, con rispetto, con umiltà, capaci di ascoltare le ragioni dell’altro. E non basta amare, bisogna dimostrarlo. Avendo sperimentato su di noi la bontà di Dio, ci diventa possibile assumere l’atteggiamento di misericordia, diventando simili a «Dio, ricco di misericordia». Pensar male del prossimo, essere malevoli, maliziosi, rigidi, insofferenti... sono gli atteggiamenti di chi non riesce ancora a guardare le miserie e le mancanze degli altri con occhi della misericordia. San Francesco di Sales nella Filotea, afferma che alcuni fanno giudizi temerari, non per acidità, ma per orgoglio; pensano che nella misura in cui abbassano l’onore degli altri, alzano il proprio! Sono spiriti arroganti e presuntuosi, pieni di ammirazione per se stessi, che si collocano così in alto nella propria stima, da vedere tutto il resto come cose piccole e basse. Altri ancora giudicano per passione e pensano sempre bene di ciò che amano e sempre male di ciò che odiano.

Il Dio che ci ha rivelato Gesù, è un Padre si compiace di avere misericordia. Gesù giustifica la sua condotta verso i peccatori dicendo che così agisce il Padre celeste. Ai suoi oppositori egli ricorda la parola di Dio nei profeti: “Voglio la misericordia e non il sacrificio” (Mt 9,13). La misericordia verso l’infedeltà, il peccato è il tratto più saliente del Dio di Gesù. Un salmo lo ripete a modo di litania: “Perché eterna è la sua misericordia” (Sal 136). Essere misericordiosi appare così un aspetto essenziale dell’essere di ogni discepolo del Signore, di ogni cristiano, “a immagine e somiglianza di Dio”. “Siate misericordiosi, come è misericordioso il Padre vostro” (Lc 6, 36). In un suo romanzo, Dostoevskij descrive un quadretto che ha tutta l’aria di una scena osservata dal vero. Una donna del popolo tiene in braccio il suo bambino di poche settimane, quando questi per la prima volta, a detta di lei, le sorride. Tutta compunta, ella si fa il segno della croce e a chi le chiede il perché di quel gesto risponde: “Ecco, allo stesso modo che una madre è felice quando nota il primo sorriso del suo bimbo, così si rallegra Iddio ogni volta che un peccatore si mette in ginocchio e rivolge a lui una preghiera fatta con tutto il cuore”. Dall’atteggiamento di Cristo verso i peccatori ogni cristiano, se raggiunto dalla misericordia divina nel profondo della sua miseria, deve risplendere della misericordia delle mani e del cuore, le opere di misericordia e “le viscere di misericordia”. San Paolo esortava i Colossesi con queste accorate parole: “Rivestitevi dunque, come amati di Dio, santi e diletti, di viscere di misericordia, di bontà, di umiltà, di mansuetudine, di pazienza; sopportandovi a vicenda e perdonandovi scambievolmente, se qualcuno abbia di che lamentarsi nei riguardi degli altri. Come il Signore vi ha perdonato, così fate anche voi” (Col 3,12-13). Ecco il senso della misericordia, che nella scia del Risorto, Teresa di Lisieux ha appreso dietro le grate del suo Carmelo. Teresa, straordinaria voce profetica della misericordia. La convivialità di Cristo con i peccatori — rivelante in questa sua presa di posizione l’infinito della sua misericordia — è certamente, in sintonia con lo spirito d’infanzia, col quale va di pari passo, l’aspetto del Vangelo che ha segnato più in profondità santa Teresa di Gesù Bambino. Nel giugno del 1897, poco prima di morire, santa Teresa conservando per sé ciò che le sembrava fondamentale, scrive a madre Maria di Gonzaga il famoso passaggio detto della «tavola dei peccatori», vero testamento spirituale: «Non è una storia inventata da un abitante del paese triste ove sono, è una realtà sicura perché il Re della patria luminosa è venuto a vivere trentatré anni nel paese delle tenebre; ahimè! Le tenebre non hanno capito che quel Re divino era la luce del mondo. Ma, Signore, la vostra figlia ha capito la vostra luce divina, vi chiede perdono per i suoi fratelli, accetta di nutrirsi per quanto tempo voi vorrete del pane di dolore e non vuole alzarsi da questa tavola colma di amarezza alla quale mangiano i poveri peccatori prima del giorno che voi avete segnato». In questa logica, Santa Teresa metteva per iscritto l’«Atto di offerta all’Amore misericordioso», di cui ecco un estratto: «Per vivere in un atto di perfetto amore, mi offro come vittima d’olocausto al vostro amore misericordioso, supplicandovi di consumarmi senza posa, lasciando traboccare nella mia anima i flutti d’infinita tenerezza che sono racchiusi in voi, così possa diventare martire del vostro amore, o mio Dio.». Non è facile rendersi conto oggi di quanto la piccola Teresa abbia ribaltato l’ordine dei valori prestabiliti, dei luoghi comuni, sul finire di quel XIX secolo, impastato di pietà borghese. La sua santità non va tanto riconosciuta nell’eroismo della sua virtù, quanto in quella sovversione evangelica che l’ha spinta a far prevalere la misericordia. Ella, da parte sua, ha evitato al cristianesimo del XX secolo di cadere nel moralismo benpensante. In uno stile che a noi, oggi, appare un po’ sentimentale, ma con una forza d’animo straordinaria, ella ci ha fatto apprendere il senso di questa parola rivoluzionaria.

«È la misericordia che io voglio». In questa gratuità della salvezza c’è la rivelazione dell’amore di Dio. Dio ci salva attraverso il suo Cristo solo a motivo dell’amore che ci porta. Ci ama, e perché ci ama ci salva. Il suo amore è tanto più grande quanto più è gratuito. È bello pensare a questa gratuità d’amore con cui il Padre e il Figlio e lo Spirito Santo operano la nostra purificazione e la nostra divinizzazione. Gesù intende e vive i pasti con i peccatori come un processo di guarigione. Quando viene accusato per la sua condotta strana e provocatoria, risponde con questo proverbio: «Del medico non hanno bisogno i sani, ma gli ammalati». Questi pasti hanno un carattere terapeutico. Gesù offre ai partecipanti la sua fiducia e amicizia, li libera dalla vergogna e dall’umiliazione, li riscatta dall’emarginazione, li accoglie come amici. Poco a poco si desta in loro il senso della propria dignità: non sono meritevoli di essere in alcun modo respinti. Forse per la prima volta si sentono accolti da un uomo di Dio; d’ora innanzi, la loro vita può essere diversa. Per questo sono pasti allegri e festosi. Si beve vino e probabilmente si intonano cantici. Nell’intimo del cuore, Gesù celebra con gioia il ritorno dei «perduti» alla comunione con il Padre. Anch’essi sono figli e figlie di Abramo. La gioia di Gesù contagia tutti; non si può essere tristi in sua compagnia; sarebbe assurdo come digiunare accanto allo sposo durante le sue nozze. Gesù siede a tavola con i peccatori non come giudice severo, ma come amico accogliente; prima che giudizio, il regno di Dio è grazia; Dio è una buona notizia, non una minaccia. I peccatori e le prostitute possono rallegrarsi, bere vino e cantare accanto a Gesù. Questi pasti sono un autentico «miracolo» che li va curando dal di dentro; essi cominciano a intuire che Dio non è un giudice sinistro che li aspetta adirato; è un amico che si avvicina loro offrendo la sua amicizia. L’accoglienza di Gesù dà a queste donne e uomini la forza di riconoscersi come peccatori; non hanno nulla da temere. Il disprezzo e l’esclusione sociale impedivano loro di guardare a Dio con fiducia; l’accoglienza di Gesù restituisce loro la dignità perduta; non hanno bisogno di nascondersi a nessuno, neppure a se stessi; possono aprirsi al perdono di Dio e cambiare. Con Gesù tutto è possibile. Sant’Agostino, parlando delle virtù della madre, pone la misericordia silenziosa come una delle più alte qualità che caratterizzano la figura materna: «Siamo dunque veramente pacifici, abbiamo sempre parole di riconciliazione e di pace, per addolcire l’amarezza che i nostri fratelli dimostreranno contro di noi o contro gli altri; cerchiamo sempre di rendere meno tese le cattive relazioni, di prevenire le inimicizie, le freddezze, le indifferenze; di riconciliare infine coloro che fossero in discordia. Questo significa far l’opera di Dio e mostrarsi suoi figliuoli, imitando la sua bontà.»

Se l’altro è un peso per me, anch’io lo sono per lui. Allora portarci reciprocamente ci sottrae all’incarceramento reciproco e ci destina alla libertà del perdono. Ciò significa che nella comunità nessun fratello è perduto e il male viene ogni giorno distrutto col perdono reciproco: «Fratelli, quand’anche uno sia stato colto in qualche fallo, rialzatelo con spirito di mansuetudine» (Gal 6,1), perché la legge di Cristo è la legge della carità (Gal 6,2). Ci è data così la grazia stessa di Cristo, quella di portare i peccati dei nostri fratelli. Il perdono, così inteso, diventa affermazione della realtà dell’altro, su cui si può fondare la promozione e la crescita positiva di ogni uomo. L’abate Poemen, richiesto da alcuni anziani se bisognava svegliare il fratello addormentatosi durante la recita dell’ufficio, rispose: «Quando un fratello dorme, pongo la sua testa sulle mie ginocchia, per aiutarlo a riposarsi». Io stesso non ho mai visto alcun membro di comunità monastiche svegliare un fratello che dormiva. In questo atteggiamento, «Dio ama quest’uomo qui e ora, attraverso la sua banalità, la sua vigliaccheria, il suo peccato» (O. Clement). Bisogna portare le debolezze e le ambiguità dei fratelli. Il discepolo, che ogni giorno è perdonato e redento, prolunga nella sua vita l’azione misterica di Dio. «Che cos’è dunque la misericordia se non la condivisione della ferita di Dio di fronte al male? È prendere su di sé il male, non perché ci spetta o perché è nostro dovere assumerlo, ma perché l’amore ci fa condividere il destino di colui che soffre più di noi. Prendere su di sé il male dell’altro perché lo si ama più di tutto... È un desiderio nato dall’amore, un desiderio che niente può fermare perché è più forte della morte...» (O. Clement). La comunità vive il peccato dell’altro come il proprio: «Se vedi qualcuno in procinto di peccare, prega il Signore dicendo: “Perdonami perché ho peccato”; così si realizzerà in te la parola che dice: “Non c’è amore più grande di colui che dona la vita per i suoi fratelli”» (Padri del Deserto). Non solo il peccato dell’altro mi appartiene, ma il peccato della comunità come tutto mi appartiene. Nessuno di noi può fare l’esame di coscienza della comunità senza fare contemporaneamente l’esame di coscienza di se stesso: ognuno di noi è uno dei tanti, uno dei molti, dobbiamo fare nostro il bene della comunità, porre sulle nostre spalle le debolezze della vita comune, interiorizzare le difficoltà e gli ostacoli. I peccati e le debolezze della vita comune non si eludono, ma s’interiorizzano, facendoli propri, addossandoli su di sé. Per vivere insieme sono necessarie un’estrema creatività e un’estrema passività: bisogna farsi penetrare e ridurre all’impotenza dalla delusione e dalla debolezza della vita comune. Bisogna sentirsi come schiavi marcati dal contrassegno del proprio padrone: a volte il marchio della vita comune è la sua debolezza. Il cristiano è il naòforo, il portatore del tempio che è la comunità. Nei riguardi del fratello e della comunità bisogna adottare lo sguardo della celeste carità di Dio che lascia convivere il grano e la zizzania in ogni uomo per non desolare e privare il campo del cuore umano di quel poco di bene che alberga in lui (Mc 13,24-30). Bisogna sempre aiutarlo nella sua lotta perché diventi ciò che non è ancora. Il male dell’altro non è che un bene ferito che cerca la luce.