È a tale capacità, donata da Dio all’uomo, che fa riferimento il primo comandamento contenuto in Genesi: “siate fecondi!”. Che significa: “non siate sterili, non siate portatori di morte, siate piuttosto miei con-creatori facendo passare vita, bene, giustizia, bellezza, misericordia!” Se la generatività fosse solo di natura biologica, sarebbe ben poca cosa. Essere generativi infatti significa accogliere ed esprimere nella massima energia e bellezza il potenziale di vita che dimora nelle profondità di ciascuno a tal punto da irradiarla e contaminare il mondo. Sarà questa irradiazione a dare vita a nuovi inizi. Così funziona la vita. Tutti lo abbiamo sperimentato. Quando avvertiamo in noi i nodi, le ferite, i blocchi e quelle parti talmente doloranti che la parola fa fatica a nominare, allora sentiamo quanto sia importante avere accanto portatori di vita buona capace di sciogliere, sanare, far rivivere, rimettere in moto. Quando ciò accade tra le persone, le comunità diventano luoghi dove si tracciano cammini verso la piena maturità umana. L’uomo, difatti, o è generativo o non è umano. La fioritura dei deserti, la fecondità di ciò che è sterile, la rinascita di ciò che appare morto, la speranza contro ogni disperazione, cos’altro sono se non le manifestazioni dell’umano compiuto, della “vita - in altre parole - secondo lo Spirito”?

La grammatica della generatività. Se queste sono le “regole dell’umano”, è l’antropologia biblica a svelarci la “grammatica della generatività”, le tappe per diventare persone autenticamente adulte e compiute. Emmanuel Lévinas, il grande filosofo ebreo, amava dire che “la Bibbia non è un libro che ci porta verso il mistero di Dio, ma verso i compiti umani degli uomini. Solo i sempliciotti ne fanno un’aritmetica teologica.” E noi, che vogliamo affrontare la questione con tutta la serietà che merita, proveremo ad entrare in dialogo col testo biblico per individuare alcune “regole grammaticali” e tracciare i contorni di una “sintassi dell’umano” capace di svelarci sorprendenti intrecci con quella che dell’umano è una delle straordinarie fioriture: la vita consacrata. Le prime grandi intuizioni sulla struttura dell’umano le troviamo ovviamente già in Genesi e si rivelano sotto forma di domanda. La prima domanda Dio la pone nel giardino all’Umano (Adam): Dove sei? Seguendo l’insegnamento di Martin Buber, Dove sei? va inteso in due modi: Dove ti stai nascondendo? A che punto sei del tuo cammino? La seconda domanda è posta a Caino: Dov’è tuo fratello? Queste due “semplici” domande aprono scenari immensi e indicano al contempo i pilastri antropologici che fanno da fondamenta a qualunque riflessione sull’uomo. Il dato strutturale, ontologico, è questo: l’uomo è strutturalmente mancante. Da ciò ne derivano due verità sull’uomo: 1. veniamo al mondo incompiuti, abbiamo cioè bisogno di un tempo lungo prima di giungere a maturità (siamo tempo) 2. la vita non ce la diamo da noi stessi, ma abbiamo bisogno di altri dai quali ricevere continuamente le offerte vitali necessarie per giungere a maturità (siamo relazione).

Siamo tempo. Il nostro “venire alla luce” non è ancora compiuto. Appena nati accediamo alla vita biologica e affettiva, ma per arrivare alla piena fioritura spirituale, come ricorda Gesù a Nicodemo (Gv 3, 1-21), c’è bisogno di ulteriori “gravidanze e travagli”. Per giungere alla maturità dobbiamo infatti nascere ancora, e poi ancora, per molte volte. È un procedere di inizio in inizio, come neonati, come ogni figlio che viene al mondo, capace di abbandono fiducioso alle mani di altri. Noi non siamo nati per morire, ma per incominciare a vivere finalmente da umani, come figli della luce. Essere tempo significa che il nostro processo di crescita è in divenire, in quanto la nostra identità non è ancora giunta a compimento. Possiamo affermare, allora, che ancora “noi non siamo, ma stiamo diventando”. Nel libro dell’Apocalisse è scritto che il nostro vero nome sarà rivelato alla fine dei tempi (Ap 2,17). Dal momento che il nome indica l’identità, il nostro nome attuale sarebbe, per così dire, provvisorio, adatto ad una identità in via di costruzione. Questa caratteristica antropologica ha delle implicazioni e conseguenze straordinarie. Infatti, nel momento in cui assumiamo di essere tempo, proiettati quindi in un futuro sconosciuto, affermiamo la nostra natura di viandanti, di pellegrini in cammino su un sentiero aperto e tutto da tracciare. Aperto a che cosa, ci chiediamo? Alla novità, alla vita inedita, allo stupore, alla meraviglia, ad una buona notizia. Non solo. Significa altresì che tutto ciò che abita il nostro passato come ferita, come zavorra, come trauma, come dolore, come peso, come contraddizione, come peccato, non determina il nostro futuro. Il nostro passato, certamente ci condiziona, ma non ci determina! Noi non siamo “liberi dal” nostro passato, ma siamo “liberi per” aprire un futuro nuovo. Anzi, nella misura in cui riusciamo ad accogliere le nostre fragilità e a ricomporre i nostri frammenti, ciò che prima appariva come “ferita” dolorante, può trasformarsi, come amava dire don Tonino Bello, in “feritoia”, una piccola breccia dalla quale entra luce nuova e attraverso la quale riuscire ad intravedere cosa si cela nelle profondità.

Siamo relazione. Non solo siamo tempo, ma tutta le realtà create sono in relazione. La Fisica odierna ha dimostrato ciò che la Bibbia ha sempre sostenuto e che Papa Francesco ha in lungo e largo sottolineato nella Laudato sì: siamo relazione. Se tutto è relazione, ci chiediamo: in cosa differiscono le realtà viventi dalle altre? Il vivente (una pianta, un animale, l’uomo), a differenza del non vivente (un sasso), nasce, cresce, si riproduce e muore grazie a ciò che scambia con altro e con altri. Fin nei livelli di vita più elementari, i processi vitali di base, come nutrirsi, respirare e riprodursi, avvengono grazie alla possibilità di scambio tra ciò che si è (se stessi) con ciò che non si è (altro, altri). La vita, quindi, non è autogenesi, non ce la possiamo dare da noi, ma ci perviene unicamente attraverso gli altri. Ecco perché la prima grande e radicale tentazione descritta in Genesi è presumere di fare a meno dell’Altro! Quando ci illudiamo di bastare a noi stessi è come se tornassimo indietro nella scala evolutiva, retrocedendo ai livelli del non-vivente, lì dove non c'è possibilità di vita, di scambio, di sviluppo, e perfino di morte. Nell'umano, inoltre, la sua intima struttura relazionale si esprime con una qualità che non possiede nessun’altra creatura: l’uomo si costituisce unicamente come “risposta” ad una domanda che la vita gli pone negli incontri con i suoi simili. Io sono nella misura in cui rispondo ad altri. La forma che avrà la nostra vita dipenderà da come le rispondiamo e le andiamo incontro. Io divento la mia risposta C’è un bellissimo versetto nel capitolo 3 dell’Apocalisse che recita: “Ecco, sto alla porta e busso. Se qualcuno ascolta la mia voce e mi apre la porta, io verrò da lui, cenerò con lui ed egli con me”. Mi piace immaginare questo Dio che attende lì, dietro la porta che dà accesso alla vita dei nostri giorni e continua a bussare chiedendo di entrare. Lui, la Vita, quella porta non la sfonda, aspetta paziente il momento in cui noi l’apriremo. Come svela il versetto, il primo a parlare è sempre l’Altro, e la nostra prima azione, capace di innescare un movimento generativo, è sempre un atto di ascolto. Sappiamo, infatti, che l’uomo rimarrà muto se il suo orecchio non può ascoltare. La sua parola è sempre parola seconda, è sempre una “risposta”. La Vita, quindi, per entrare e fecondare le nostre esistenze, ha bisogno del nostro “sì”, del nostro andarle incontro ed aprirle la porta, del nostro movimento innescato da una sola risposta: «Eccomi!». L’energia vitale – la Grazia - per “spiegare la potenza del suo braccio e far nuove tutte le cose”, ha bisogno del nostro “Eccomi!”. L’“Eccomi!” esprime la capacità di rispondere alla parola dell’altro nel segno dell’apertura, dell’ospitalità` e del cammino. Chiunque lo pronunci (come Abramo e Maria) si rigenera, rinasce, dà vita a un nuovo inizio, vive l’oggi come fosse il primo giorno della creazione. Il grande paradigma della fecondità è quello della maternità e viene proposto a ciascuno di noi: “Ci stai a offrire il tuo corpo come sede di una vita nuova? Ci stai a mettere da parte i tuoi tempi, i tuoi progetti e a programmare la tua vita mettendo al centro i tempi di un Altro? Ci credi che nella misura in cui metterai la tua esistenza sotto il segno dell’ospitalità, la tua vita esploderà in forme di impensabile generatività?” Una madre diventa tale nella sua risposta: “Io ci sto”. La vita pone le domande e noi, che siamo dei “chiamati”, non aderiamo a cammini preordinati da altri, ma costituiamo il nostro destino, secondo un gradiente di generatività, in virtù della libera risposta data. La vita responsabile è la vita di chi è capace di dare una risposta.

Io sono gli altri. Siamo quindi tempo, siamo relazione, siamo la nostra risposta. Perverremo a piena maturità umana (e quindi spirituale) nella misura in cui accogliamo le offerte vitali che gli altri ci fanno e offriamo vita a nostra volta. Accogliamo vita per riuscire ad offrire vita. A questo punto sorge una domanda: quale vita stiamo offrendo? Continuiamo a dialogare con la Sacra Scrittura. “La qualità di un albero la si riconosce dai frutti” (Mt 7,17, Lc 6,44), ci ricordano gli Evangeli. La capacità di offrire vita buona è l’esito di una vita spirituale adulta, di chi continuamente alimenta il proprio processo di umanizzazione. “L'uomo buono prende il bene dal prezioso tesoro del suo cuore; l'uomo cattivo invece prende il male dal cattivo tesoro del suo cuore. Ciascuno infatti con la sua bocca esprime quel che ha nel cuore.” (Lc, 6,45). La maturità (l’uomo buono) di una persona, ci dice Luca, è espressione di un “tesoro buono” posseduto nel cuore. Come si accumula il tesoro buono? Semplice: la vita interiore si costituisce attraverso la progressiva interiorizzazione delle esperienze che viviamo, dei doni che riceviamo e delle scelte che compiamo. La nostra interiorità (affettiva, emozionale, cognitiva, spirituale), così come la nostra “esteriorità”, non sono mai realtà “individuali”, sono sempre realtà “relazionali”. Noi non siamo cioè “individui” isolati, siamo piuttosto “persone” inserite in una trama di rapporti e costituite intimamente dagli “altri”. Le persone che abbiamo incrociato nella nostra vita, infatti, non sono passate, non le abbiamo perse, ma ce le portiamo dentro. Sono ormai parti di noi, nel bene e nel male, volenti e nolenti, gioenti e dolenti. Gli altri abitano il nostro essere tempo (passato, presente e futuro), popolano la nostra interiorità. Ogni giorno, in ogni momento, facciamo i conti con ciò che abbiamo ricevuto, con ciò che abbiamo scelto e con ciò che abbiamo subìto. Portiamo in noi ciò che gli altri ci hanno dato, ma anche ciò che non hanno saputo o potuto darci. Di fronte a questa interiorità in costruzione, così popolata e spesso frammentata, ci chiediamo: come portare a compimento il processo di interiorizzazione? Quale percorso possiamo seguire? Quali strumenti possiamo utilizzare?

Io sono un figlio. La nostra interiorità è abitata da tre tipologie di doni: doni positivi, doni parziali, doni mancanti. Perché possano trasformarsi in “tesoro buono”, essi richiedono rispettivamente la capacità di dilatare i doni positivi, la capacità di portare a compimento quelli parziali e la capacità di immettere quelli mancanti. Queste attitudini fanno parte di un unico processo, il cui nome, bellissimo, è “ereditare”. Ereditare significa scoprire i semi di futuro che altri hanno piantato nella nostra vita, impastarli con i propri talenti e con la propria vocazione e fare della propria realtà una storia unica e irripetibile. Per ereditare occorre innanzitutto fare memoria, che significa affinare la capacità di riconoscere nella propria storia i vari doni e dare loro un nome. Inoltrarsi nella propria biografia con uno sguardo nuovo diventa perciò necessario, poiché soltanto in questo modo è possibile scoprire quando, come e attraverso chi, Dio ha tessuto la sua tela d’amore, dal momento che è lì, negli eventi della vita, nelle ricchezze ma anche nei vuoti e nelle mancanze che la abitano, che possiamo identificare le tracce del suo passaggio. È sempre la Bibbia a dirci che il Signore lo possiamo individuare più facilmente a posteriori, quando è già passato (“Io ti coprirò con la mano, finché non sarò passato. Poi toglierò la mano e vedrai le mie spalle, ma il mio volto non si può vedere” Es. 33,23). Ereditare, quindi, ma chi è che eredita se non il figlio? Colui che sceglie e affronta tutta la fatica e la bellezza dell’ereditare diventa, cioè, figlio. Chiunque si inoltri nella propria storia compiendo un vero e proprio esodo interiore, acquisisce l’identità di figlio. Egli «eredita» gli eventi del passato, ma non ne rimane schiavo, li rilegge e li trasforma in un nuovo racconto. Ma c’è un altro segnale, un “frutto” davvero importante, che rivela se si è sulla strada della rinascita, quella dell’“albero buono” e della generatività filiale: il senso di fraternità.

Dalla filialità alla fraternità. “L’Io – amava ripetere Ferdinand Ebner – non può mai trovarsi in se stesso, ma deve uscire da se stesso, e cercarsi nel Tu”. È il Tu che svela all’Io chi l’Io è e chi può diventare. Noi non sappiamo chi siamo senza il Tu. Non ce lo rivela lo specchio di Narciso e nemmeno un solitario esercizio di introspezione. Ognuno si conosce soltanto a partire dall’altro e dal mistero cui rimanda la relazione. La nostra esperienza di crescita è esperienza dell’altro, col quale sperimentiamo il nostro limite, ma anche l’amore che genera. Ma l’altro è sempre l’estraneo, colui che non scegliamo. Per questo, come ci insegna la lotta notturna di Giacobbe contro lo Straniero (Gn 32), l’altro è contemporaneamente ferita e benedizione. Egli ci svelerà un nuovo frammento della nostra identità in divenire a condizione che riusciamo a portare la “ferita” della sua alterità (“Non ti chiamerai più Giacobbe, ma Israele”, Gn 32,28). L’altro è ferita, è fastidio, è inciampo, è mistero che interroga, è, allo stesso tempo, appello ad uscire e domanda di ospitalità. Ecco perché la fraternità più che imperativo morale o religioso, espressione di generosità o invito alla solidarietà, è condizione antropologica per divenire persona adulta e compiuta. La filialità e la fraternità sono perciò codici inscindibili: l’evento di nascita radicale è quando consideriamo prezioso il legame con l’altro che non scegliamo e ne abbiamo cura. La rottura della fraternità porta come conseguenza quell’impossibilità di essere portatori di vita che, nel linguaggio biblico, è chiamata maledizione. Uccidendo Abele, Caino maledice se stesso ed è costretto all’erranza, alla ricerca di se stesso, vana, perché senza l’altro non sa chi è. Questa è la sua tragedia.

I quattro codici della vita umana. La vicenda di Caino ci insegna un’ulteriore verità sull’uomo: la cura della propria interiorità è un fatto personale ma non è mai un fatto privato. Nessuno cioè può adoperarsi al posto mio, ma un’interiorità matura e generativa è allo stesso tempo conseguenza e causa di trame relazionali autentiche. Le comunità divengono allora i luoghi elettivi per alimentare, ricomporre, sanare e maturare la vita interiore. Esse sono i luoghi dove il volto dell’altro non scelto continuamente turba, ferisce e interroga: “Sarai tu oggi capace di rinnovare il tuo “Eccomi!” mediante pratiche di ospitalità, cioè accoglienza del mio volto e della mia parola e cura delle tue profondità?” È in questo modo che nella vita consacrata il “Sì, ci sto” della sponsalità viene quotidianamente alimentato e rinnovato attraverso pratiche di filialità e fraternità. Diventa perciò sempre più necessario e urgente istituire percorsi formativi e di accompagnamento capaci di armonizzare le varie componenti di crescita delle persone e delle comunità. È quanto viene fatto col Modello dei quattro codici che descrive il passaggio alla vita spirituale e i suoi dinamismi come piena espressione e compimento (“fioritura”) della vita affettiva (biologica e psicologica). Il Modello, basato sui concetti di antropologia biblica descritta in questo articolo, è stato presentato nel mio libro per le Edizioni San Paolo I quattro codici della vita umana. Filialità, maternità, paternità, fraternità. In esso viene illustrata dinamicamente la struttura affettiva e spirituale della vita interiore e si tracciano cammini formativi preziosi per la vita consacrata. Alcune delle domande cui si prova a dare indicazioni sono queste: • Come posso riconciliarmi con la mia storia di figlio/a e di fratello o sorella? • Come posso ereditare doni e mancanze e renderli generativi? • Come riuscire a ricomporre ed armonizzare la dimensione affettiva con quella spirituale? • Come posso alimentare la mia vocazione profonda, nutrirla e seguirla? Il Modello, basato sulle simbologie e linguaggi biblici, insegna un metodo, fornisce strumenti e disegna varie tipologie di percorsi formativi e di accompagnamento. Il 6 marzo, nell’Istituto Salesiano Sacro Cuore, in via Marsala 42 di Roma, avverrà per la prima volta una sua presentazione per la Vita Consacrata. Superiori, Referenti per la formazione e tutti i Consacrati sono invitati.

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