Sotto i nostri occhi si consuma la più grande frattura religiosa tra le generazioni. È come se i padri continuassero a porsi la domanda: «Come posso essere un buon cristiano?», mentre i figli si chiedono: «La fede cristiana è buona per la mia vita?». I primi cercano di adeguare la propria vita a un modello, i secondi cercano un modello da adeguare alla propria vita. Ne scaturisce una distanza che investe tutte le dimensioni simboliche della vita: il tempo, lo spazio, le persone, i significati, i valori. Mentre noi adulti cerchiamo Dio nei tempi della festa, loro lo cercano nello scorrere del quotidiano; mentre noi abitiamo lo spazio del sacro, loro si immergono negli ambienti profani; mentre noi ci affidiamo alle mediazioni della Chiesa e dei sacramenti, loro desiderano un rapporto diretto e personale con Dio; mentre noi seguitiamo a temere l’aldilà, loro rincorrono il sogno di una felicità e una realizzazione nella vita terrena; mentre noi ci appelliamo agli ideali della giustizia, della verità, del bene, loro seguono un unico orizzonte di valore, quello estetico: «È bello!».

La ricerca di fede dei giovani comporta una dissoluzione (dolorosa) del nostro modello di vita cristiana, ed è normale che ci sentiamo smarriti, ma essa non è affatto distante dall’esperienza che Gesù propone ai suoi discepoli. Non è forse lui il maestro che rifiuta il sabato, distrugge il tempio, supera le mediazioni della legge, opera la salvezza dell’uomo e propone una relazione con Dio intensa e personale? Non siamo alle prese con una frattura nei confronti del Vangelo, ma del nostro modo di intenderlo e di viverlo. Questa generazione ci obbligherà – non solo come persone, ma come comunità cristiane – a riprendere in mano la Parola e lasciare che sia la vita di Gesù e dei discepoli a plasmare una nuova dinamica ecclesiale.

«Perdonali perché non sono qui con noi»: è il pensiero del parroco nelle Esperienze pastorali di don Milani, durante la scarna processione eucaristica, ai tanti giovani indifferenti ai lati della piazza. Il curato (lo stesso don Lorenzo) invece pensa: «Perdonaci, perché non siamo là con loro!», operando un profetico ribaltamento di prospettive. Forse è giunto il tempo di una consapevolezza nuova: la fede di questa generazione ci obbliga a ripensare la nostra, la loro assenza ci impone di convertire la nostra presenza. Esserci, non significa più soltanto che devono venire da noi, o che noi dobbiamo andare da loro, ma che la loro ostilità al nostro modo di essere discepoli ci obbliga a rinnovarlo. Insieme. I banchi vuoti delle nostre chiese aprono nuovi varchi di sinodalità missionaria.

Giordano Goccini @Avvenire, 03/07/2019

Da https://giovani.chiesacattolica.it/le-attenzioni-competenze-esserci/?fbclid=IwAR3SCnfYFiiDG0ap0zwspZCZcI6FVwgoJ6Th0tRMVfJNpRk6T_u8wYPR-WQ