La situazione della comunità di Corinto era unica e irripetibile; le conversioni al cristianesimo erano di recente data, la maggior parte risultato di scelte individuali. I nuovi credenti dovevano vivere la loro fede senza poter abbandonare persone, usi, occupazioni e ambienti pagani. Concretamente la radice del problema pare risiedere nel fatto che, basandosi sulla consapevolezza di una salvezza già realizzata, non riuscivano a riconoscere la “legge della carne”, le sue esigenze ancora vigenti nell’esistenza del credente, dibattendosi tra un ingenuo spiritualismo, che negava la realtà del corpo e le sue necessità, ed un ascetismo rigoroso, che rifiutava di soddisfare le più legittime aspirazioni della carne. La risposta di Paolo è un esempio di misura e di buon senso; senza nascondere il suo punto di vista personale né tacere la sua opzione personale per il celibato, non lo impone, sa infatti che non è alla portata di tutti. Non tralascia di riaffermare la dottrina evangelica circa il matrimonio, che fa della vita coniugale un esercizio continuo di fedeltà a Dio creatore più che un semplice rimedio alla concupiscenza. Paolo è maestro di apostoli vergini. Sa dare testimonianza delle proprie convinzioni personali, rispettando l’intimità dei suoi cristiani. Come apostolo, può proporsi come modello, ma dovrà imporre solo la volontà di Dio.

La sua posizione fondamentale (1Cor 7,1-7) Paolo si manifesta senza mezze tinte a favore del celibato. Tale è il suo punto di partenza. Ma il suo realismo pastorale lo porta ad evitare di fare del celibato il modo esclusivo di essere cristiano. Con questo ha salvato la comunità dal cadere nella tentazione di un ascetismo elitario; matrimonio e verginità sono stati di vita legittimi per il cristiano, essendo il disordine sessuale e la sua migliore prevenzione il criterio di discernimento che offre Paolo.

Il matrimonio. Il matrimonio diventa in questo modo la garanzia più sicura che ha la comunità di superare il peccato di fornicazione, pericolo che in una città come Corinto era reale e costante. Paolo, tuttavia, non si limita a comprendere il matrimonio cristiano come rimedio o prevenzione; non si tratta solo di cercare una relazione dove la soddisfazione del desiderio sessuale eviti la trasgressione. Il corpo del credente non può essere soggetto ai propri istinti né si deve pretendere di usare corpi altrui per soddisfare il proprio bisogno personale. Signore del corpo, all’interno del matrimonio cristiano, è sempre “l’altro”. La liberazione cristiana non si realizza accumulando servi a nostra disposizione, ma proponendoci, in corpo e anima, al servizio dell’altro – del coniuge, in questo caso – non è la propria passione ma il bisogno altrui ciò che deve caratterizzare l’intimità matrimoniale. Affinché la donazione del proprio corpo possa essere degna di cristiani dovrà effettuarsi come donazione gratuita, riconoscendo il diritto altrui su se stesso e consacrandosi a soddisfare l’ansia e il bisogno del compagno. Solo arrivando a quel grado di libertà che è liberazione dai propri impulsi di possesso e concupiscenza si può ottenere la reciprocità nei rapporti matrimoniali. Dedicarsi, affettivamente ed effettivamente, alla gratificazione dell’altra parte dà diritto a fare affidamento sugli affetti e sulla vita dell’altro per soddisfare la propria necessità. In nessun momento Paolo raccomanda una vita matrimoniale apparente; il suo realismo apostolico lo porta a smentire una vita in comune che non includa l’esercizio del proprio diritto. Chi non è stato chiamato al celibato non deve esser sottomesso alla prova di un celibato/nubilato non voluto. Solo la preghiera, di comune accordo e limitata nel tempo, può legittimare - e questo come concessione e non come imposizione apostolica – la rinuncia al rapporto matrimoniale. La comune esperienza di Dio può permettere l’astensione all’intimità con l’altro; la ricerca di Dio può interrompere la ricerca dell’altro, ma deve restituirli l’uno all’altro. La comunione, spirituale e fisica, è la forma normale per giungere alla comunione con Dio e il modo di garantire la santità cristiana; dandosi in corpo e anima all’altro ci si salva dal Tentatore e si salva il matrimonio dalla rottura.

Il celibato. Paolo esprime nuovamente il suo desiderio che ogni cristiano viva come lui, libero da vincoli personali. Ma confessa che il celibato è un dono di Dio (Mt 19,12). Il celibato – e qui nulla fa pensare che Paolo si stia riferendo alla rinuncia al matrimonio ‘per il regno dei cieli’, ma piuttosto sembra alludere allo stato cristiano di libertà dal bisogno carnale – non deve essere imposto a nessuno e nessuno può conseguirlo con le proprie forze. Non è una meta da proporsi né una vittoria cui aspirare: è grazia e solo la libertà sovrana di Dio può concederla. Chi non si sente graziato col dono di “potersi-mantenere-celibe” non dovrà tentare di intraprendere questo cammino, sotto pena di non riconoscere il proprio carisma e la libertà di Dio. Indubbiamente Paolo preferiva vedere i suoi cristiani vivere in comune senza essere soggetti a vincoli matrimoniali; ma - e qui debbono imparare oggi gli apostoli celibi - ciò non lo porta ad imporre la propria forma di vita, che giudica migliore, a tutti senza distinzione. Rispettare la capacità dei suoi è semplicemente obbedire al Dio che distribuisce i suoi doni come vuole. Vi è sempre una soglia, nell’intimità del credente, che solo il Dio libero può oltrepassare. Le nostre comunità, come quella di Corinto, hanno bisogno di apostoli che, come Paolo, abbiano il coraggio di presentarsi davanti ai propri destinatari come celibi ed oggetto di grazia, sicuri della grazia che Dio ha fatto loro. Tacendo il dono del nostro celibato, se non addirittura vergognandoci di esso, e vivendolo come “solitudine affettiva”, stiamo rendendo ancora più difficile che Dio trovi oggi credenti disposti ad accettarlo come Amore esclusivo delle loro vite; stiamo privando le coppie cristiane dell’esempio che dobbiamo loro di un amore a Dio possibile anche senza appoggi umani. Se recuperassimo la coscienza di essere celibi per grazia immeritata, recupereremmo l’orgoglio di esserlo e, allo stesso tempo, sarebbe più sincera e radicale la consapevolezza della nostra impotenza. Non dovrebbe costarci nulla testimoniare che il nostro celibato è dono carismatico; perdere la vergogna di mostrarci “diversi”, non migliori, implicherebbe mostrarci grati a Dio e comprensivi con gli altri cristiani.

L’altra dimensione della verginità (1Cor 7,25-40) Verso la fine del capitolo Paolo concretizza i suoi consigli dirigendosi ora alle giovani non ancora fidanzate e alle vedove. Alle prime ripete la propria posizione personale a favore del celibato, basandosi su una nuova – cristiana, al cento per cento motivazione: l’attesa di una fine imminente di questo mondo. Di fronte a una situazione simile è preferibile non stabilire relazioni che sappiamo essere passeggere; la verginità è, in questa prospettiva escatologica, espressione di quella attesa e stato di veglia, liberazione da vincoli e doveri mondani, anticipo parziale – nel proprio corpo! – di “quel che verrà”. Non è che il matrimonio sia un male o un impedimento per chi attende il Giorno del Signore. Chi vive sposato dovrà mantenere tale unione, pur sapendo che non durerà. Ma la verginità è preferibile se – e solo in questo caso – è effetto della speranza.

L’attesa del miglior Amante. La liberazione dalla possessione affettiva non può essere vissuta come semplice ascesi né, molto meno, come rinuncia obbligata. Chi non è dominato dall’attesa del suo Signore non potrà illudersi di mantenersi vergine fino al giorno della sua venuta. Quindi, il miglior modo di conservarsi vergine sarà quello di mantenersi tesi verso il Signore che viene. Quando il vuoto causato dalla solitudine corporale rende più ardente la nostalgia del Signore Gesù, quando non abbiamo nessuno in carne ed ossa al nostro fianco e questa “scoperta” ci mette in cammino verso l’Amato che sta per arrivare, il nostro celibato sarà frutto della nostra speranza. La capacità di amare nel vergine non rimane insoddisfatta, si ritarda la sua realizzazione, in attesa del miglior Amante, del più Amato. Quanto più costa il mantenersi vergine, tanto più se ne sente la mancanza, e tanto più lo si attende. La verginità cristiana è la condizione del credente che può aspettare il suo Signore che viene. Chi di noi non sa o non vuole aspettare, rinunci ad essere vergine. Senza aspirazioni e senza veglie, senza luce nelle lampade e senza provvista di olio, non si può essere riconosciuti da Lui come vergine prudente (cfr. Mt 25,1-13).

La speranza, patrimonio del credente. L’attesa del giorno del Signore, il presentimento della sua imminente venuta, non sono patrimonio esclusivo del cristiano vergine. Nella comunità tutti dovrebbero vivere “speranzosi”. Vivere aspettando Lui significa superare radicalmente ogni legame, reale o affettivo, personale o materiale, che vincoli a questo mondo. Chi è consapevole che un bel giorno Dio verrà, può vivere come se già fosse qui presente. La speranza è, quindi, il modo di relazionarsi con un Dio assente ma vicino, è il modo di anticipare l’incontro e di pregustarne la presenza, anche se lo si vede ancora su un orizzonte lontano. Chi attende non rinuncia perché è male quel che non si vuole, ma perché può distrarlo dalla realtà migliore, che ancora non possiede. La verginità ha oggi una testimonianza da dare: in un’epoca in cui tra noi è più rara l’attesa di un giudizio futuro, di una venuta del Signore, la testimonianza silenziosa di una vita vergine, che si sostiene in base ad una speranza trepida costituisce una critica profetica nei confronti dei nostri contemporanei ed un servizio missionario ai nostri destinatari. Il mondo, soprattutto quello giovanile, deve sapere che si può amare chi non è ancora venuto, che anelerà più intensamente alle carezze dell’amato colui che ancora non le conosce. La comunità cristiana ha il diritto alla verginità, conta su apostoli vergini, credenti che per attenderlo meglio lo attendono affettivamente “da soli”.